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Ecco come funziona la memoria. Progetto Interceptor

Scoperte le cellule nervose che aiutano a ricordare gli oggetti Hanno una forma ovoidale, si attivano quando vedono cose nuove

La memoria come risorsa da tutelare. Si chiama Interceptor lo studio italiano che ha l’obiettivo di identificare tra i soggetti con declino cognitivo lieve (o MCI, Mild Cognitive Impairment), coloro che sono a rischio di un’evoluzione verso la malattia dell’Alzheimer. Il progetto sottolinea l’importanza del contributo dei biomarcatori, ossia gli indicatori biologici, in grado di prevedere l’eventuale sviluppo della malattia, per poterne rallentare la progressione attraverso un intervento farmacologico precocissimo. Si tratta di uno studio clinico, interventistico non terapeutico, che parte dalla diagnosi dei sintomi prodromici lievi dell’Alzheimer.  I biomarcatori usati sono vari. E cioè test neuropsicologici. Test su liquor (p-tau e A1-42/p-tau). Test genetico (ApoE4). EEG per connettività. RM volumetrica. (18 F) FDG-PET. Lo studio Interceptor è stato ideato nel 2016 in risposta alla possibile approvazione da parte del Food and Drug Administration, l’ente regolatorio americano per i farmaci, del primo farmaco contro l’amiloide, il cui accumulo nel cervello viene ad oggi considerato una delle principali cause della demenza di Alzheimer. Il progetto è coordinato dalla Fondazione Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma e finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) con fondi straordinari per attività istituzionale e dal ministero della Salute.
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Foto di David Matos su Unsplash

Interceptor e memoria

Interceptor è partito nella primavera 2018 e terminato poco più di un anno fa. Sono appena stati presentati i risultati presso l’aula Pocchiari dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), dove si è svolto il convegno “Lo studio Interceptor”, organizzato da Iss, Policlinico Agostino Gemelli e Irccs San Raffaele. Promotore e coordinatore del progetto è il professore Paolo Maria Rossini, attuale responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma. “Lo studio Interceptor è una ricerca di grande rilevanza in considerazione dell’impatto epidemiologico delle demenze e del profilarsi all’orizzonte di nuove prospettive di cura, con i farmaci disease modifying”, spiega il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenuto all’evento. “Le malattie neurodegenerative rappresentano una delle maggiori sfide sanitarie del nostro tempo – aggiunge il titolare della Sanità-. In Italia oltre un milione di persone è affetto da patologie neurodegenerative e quasi 900.000 presentano un deterioramento cognitivo lieve. Una condizione che può evolvere in demenza. Considerando poi i 4 milioni di familiari e caregiver impegnati direttamente nell’assistenza di queste persone, calcoliamo che in Italia le persone che hanno a che fare con le demenze siano circa 6 milioni“.
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Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Studio-Gemelli

“La prevalenza della malattia aumenta con l’età e raggiunge il 15-20% negli ultra 80enni. Questo quadro, soprattutto in una nazione longeva come la nostra, impone una risposta forte e strutturata da parte del Servizio sanitario nazionale- osserva il ministro Schillaci-. Nell’ambito dei disturbi del sistema cognitivo, con i fondi della ricerca finalizzata negli ultimi 5 anni sono stati erogati oltre 37 milioni per 89 progetti di ricerca. Mentre con i fondi Pnrr abbiamo destinato oltre 24 milioni a 26 progetti di ricerca. Vi è poi il lavoro svolto attraverso la Rete tematica degli Irccs delle neuroscienze e della neuroriabilitazione“. Il professor Rossini ha poi precisato di cosa tratta nello specifico lo studio in questione. “Alla fine dei 3 anni di follow up abbiamo visto che un terzo dei pazienti con disturbo cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI) è diventato demente. Cioè su 351, 104 hanno sviluppato la malattia – precisa lo scienziato-. Quindi il 30% delle persone con disturbo lieve dopo 3 anni diventa demente e probabilmente questa è la cifra, ossia per il resto del follow up, anche se lo porto a 5 o a 10 anni, questo rimane. Ciò vuol dire che il 70% non lo diventerà mai”.

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Foto di Compare Fibre su Unsplash

Valutazione

Evidenzia lo scienziato: “Siccome nel foglietto illustrativo approvato da Ema per il farmaco nuovo c’è scritto che gli Mci sono una popolazione che può avere il farmaco e siccome il farmaco costa tanto e ha effetti collaterali importanti, bisogna sapere a chi darlo e a chi non darlo perché se lo dai a uno che non si ammalerà mai non solo spende soldi inutilmente, ma gli fai correre dei rischi inutili”. Quindi, ha proseguito “bisogna intercettare quel 30% a tempo zero perché noi lo abbiamo saputo dopo tre anni e lo strumento che abbiamo messo a punto serve proprio per scoprirlo quando si fanno le diagnosi di Mci”. E aggiunge all’Agi: “Si applica quel protocollo e si può dire al paziente ‘sei ad alto rischio, a medio rischio, a basso rischio’. Diamo quindi ai medici di famiglia uno strumento chiamato ‘nomogramma’, ossia una scheda elettronica con un programma computerizzato dietro, per cui immettendo i dati del paziente, alcuni banali come sesso, età, anni di scolarità, se fa attività fisica o meno. Altri invece strumentali, la puntura lombare o la risonanza per vedere il cervello, alla fine viene fuori con il righello elettronico un numero che indica la percentuale di rischio di diventare demente nei prossimi 3 anni. A quel punto il Servizio sanitario nazionale può decidere che sopra il 70-80% di rischio si eroga gratuitamente il farmaco, sotto si segue la persona ma non gli si dà il farmaco perché non ci sono gli elementi di gravità e di rischio elevato richiesti“.

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@ Iss

Scoperta sulla memoria

Hanno una forma ovoidale, sono state appena scoperte e promettono di rivoluzionare alcune teorie sul modo in cui la memoria lavora. Sono le nuove cellule nervose che permettono di ricordare gli oggetti. Descritte sulla rivista Nature Communications, potrebbero aprire la via a future terapie contro l’epilessia e la malattia di Alzheimer. Scoperte dal gruppo di Mark Cembrowski, della University of British Columbia a Vancouver, le cellule ovoidali sono indispensabili per orientarsi facilmente negli ambienti che si frequentano quotidianamente, come la casa o l’ufficio. Sono cellule molto particolari, specializzate nell’attivarsi ogni volta che si incontra qualcosa di nuovo: subito catalogano il nuovo oggetto e lo archiviano, in modo che possa essere riconosciuto a distanza di mesi o di anni. “La memoria specializzata nel riconoscere gli oggetti svolge un ruolo centrale nella percezione della nostra identità e del modo in cui interagiamo con il mondo“, osserva Cembrowski. Essere in grado di riconoscere un oggetto come familiare o noto “ha importanti implicazioni per i disordini e le malattie legate alla memoria”, osserva Adrienne Kinman, prima firmataria dell’articolo.
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Foto di Total Shape su Unsplash

Cellule ovoidali

Le cellule ovoidali sono presenti in un numero piuttosto piccolo nell’area del cervello nota per essere la sede della memoria, l’ippocampo, degli esseri umani, dei topi e di altri animali. E’ stata Kinman a scoprirle nel cervello dei topi e a individuare le loro proprietà. Per comprenderne il ruolo i ricercatori le hanno rese fluorescenti in modo da poterne seguire l’attività. E’ così che si sono accorti che si attivavano ogni volta che un topo incontrava un oggetto non familiare e che smettevano di reagire a mano a mano che lo stesso oggetto diventava familiare. “E’ notevole quanto vivacemente queste cellule reagiscano se esposte a qualcosa di nuovo. E’ raro assistere a un legame così chiaro fra attività cellulare e comportamento”, osserva la ricercatrice. “Nei topi – aggiunge – le cellule possono ricordare per mesi un oggetto visto una volta”. Adesso i ricercatori stanno studiando il ruolo delle cellule ovoidali in una serie di disturbi della memoria, come la malattia di Alzheimer o l’epilessia. E l’ipotesi è che i problemi arrivino quando le cellule ovoidali sono troppo attive o non attive abbastanza.

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