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Cop25, la strada senza ritorno del clima

Il momento europeo dell'uomo sulla Luna”. Non trova metafora più calzante la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per definire il Green Deal europeo, presentato a Bruxelles due giorni fa e che prevederà lo stanziamento di 260 miliardi di euro in investimenti pubblici e privati all'anno per 10 anni allo scopo di ridurre drasticamente le emissioni di gas nell'atmosfera del 50-55%. Nella nuova agenda, il termine fissato è il 2030 e, per rendere il piano effettivo, è previsto un fondo di transizione di circa 100 miliardi di euro che favorisca quegli Stati in cui il processo di de-carbonizzazione è considerato più difficile. La prima data fissata è marzo 2020, poi l'iter procederà spedito con proposte legislative graduali ed efficaci fino al 2021. Per capire la complessità dei nodi da sciogliere, però, non è sufficiente circoscrivere il tema a livello esclusivamente europeo. La partita climatica si gioca su un piano globale, e lo dimostra il tema del “Loss and damage“, un meccanismo richiesto dai Paesi in via di sviluppo agli Stati ricchi per far fronte ai danni causati dai bruschi eventi climatici. Se già sull'Accordo di Parigi non sono mancate resistenze più o meno forti, c'è da aspettarsi una certa riluttanza, da parte di alcuni Paesi, a mettere mano al portafoglio. Questo e altri punti aiutano a capire che la questione climatica è solo marginalmente ambientale: le ripercussioni più evidenti avvengono, infatti, da un punto di vista sociale ed economico.

Vertice finale

Domenico Gaudioso è ricercatore esperto di cambiamenti climatici, che ha collaborato con l'IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) ed il Segretariato della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Uditore al recente Sinodo sull'Amazzonia, è da pochi giorni tornato da Madrid, dove ha preso parte alla prima settimana di lavori sulla Cop25. Interris.it ha chiesto le sue prime impressioni sull'avanzamento dei lavori.

Ingegnere Gaudioso, quali temi sono stati messi sul tavolo durante la prima settimana?
“A questa conferenza delle parti, i nodi maggiori sono stati due, più qualcun'altro in definizione. Il punto principale ha riguardato i meccanismi di cooperazione, espressi dall'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che rendono possibile la collaborazione fra governi e consentono ai Paesi in via di sviluppo di usufruire di finanziamenti provenienti dagli Stati più industrializzati per realizzare progetti di riduzione delle emissioni”.

Cosa c'è in gioco in queste discussioni?
“Si tratta di una partita essenzialmente politica. Basti pensare al rifinanziamento delle azioni previste per l'attuazione dell'Accordo da parti dei Paesi in via di sviluppo: quanti Stati industrializzati sono disponibili a finanziare i Paesi più poveri?”.

Qual è il secondo nodo che menzionava?
“È il tema del Loss and damage, cioè la procedura di erogazione di un 'fondo green' varato già con gli Accordi di Varsavia (2013) e che definisce i danni del cambiamento climatico. Alla Cop25 c'è la volontà di passare da un meccanismo di valutazione a uno di supporto. Per esempio, il Mozambico è un Paese oggetto di una serie di cicloni, come Idai, che hanno danneggiato la città di Beira a distanza molto breve l'uno dall'altro. Il Mozambico è un Paese povero e quindi si discuteva della possibilità, dopo una valutazione, di chiedere un parziale aiuto per far fronte ai disagi”.

Quali impressioni ha di ritorno da Madrid?
“Ho partecipato alla prima settimana di lavori e, in quei giorni, nessuna tematica è stata risolta, essenzialmente per problemi politici. La mia sensazione è che siano state vincolate le bozze d'accordo dei tecnici all'arrivo e intervento dei rappresentanti politici la seconda settimana. Gli aspetti economici hanno frenato le soluzioni, perché di tutte le tematiche se ne fa una questione puramente politica”.

E l'Europa? Sono emerse alcune frizioni fra Paesi…
“Nel negoziato, l'Unione europea parla come parte della convenzione. Tutto ciò che dice la presidenza rappresenta una sintesi delle posizioni di tutti, ma gli obiettivi dell'Ue sono chiari. Le controversie, semmai, torneranno quando si dovranno definire le strategie”.

Quali sono, dunque, i rischi maggiori?
“I meccanismi ci sono e sono stati sperimentati, sia quelli di trasferimento delle informazioni che consentono il monitoraggio degli impegni presi dai Paesi, sia quelli di supporto ai Paesi più poveri. Semmai, c'è il rischi che il processo si coaguli sotto un punto di vista politico, com'è successo con l'Accordo di Parigi”. 

Cos'altro ha notato?
“Nella Cop25, la Cina ha dimostrato di non volere modalità di trasmissione dei dati della comunicazione imposte da procedure standard, che percepisce come ingerenze. Non dimentichiamo, inoltre, che in origine la conferenza doveva essere ospitata in Cile, in cui lo sviluppo dei Paesi è un problema sentito. Questo tema è rimasto al centro delle discussioni anche a Madrid”.

Come ha influito il recente Sinodo per l'Amazzonia sulla percezione dei cambiamenti climatici?
“Il messaggio di Papa Francesco è stato importante perché s'inscrive in una coerenza di iniziative che partono dall'enciclica Laudato si'. L'influenza del Pontefice è stata notevole e ne ho visto il riflesso anche alla Cop25. Per esempio, gli argomenti legati all'Amazzonia non erano all'ordine del giorno, ma in molti “side events” si è discusso come la deforestazione e i diritti delle popolazioni indigene siano legati di fatto alla salvaguardia della regione amazzonica. La convenzione ha messo, difatti, in atto alcuni meccanismi di supporto che potrebbero aiutare i Paesi nella lotta alla deforestazione. Bisognerebbe, però, che i progetti siano finanziati e che includano la partecipazione delle popolazioni indigene”.

Cosa auspica che accada da questa sera, quando finirà il vertice?
“Non saprei. Va detto che c'è un'opinione pubblica molto forte. Nel momento in cui i Paesi più ricchi faranno uno sforzo per attività di sostegno alle iniziative su tutto il Pianeta, anche alcuni blocchi dovrebbero venire meno. Per nessun governo sarebbe positivo uscire senza un degno risultato”.

Siamo davvero al limite?

È innegabile che oggi, complice la tenacia di Greta Thunberg, il tema del cambiamento climatico sia entrato nell'opinione pubblica. Non si tratta, tuttavia, di un fenomeno recente. Trent'anni fa, quando in tutto il mondo il cambiamento climatico era un argomento solo marginale, la rivista statunitense TIME riuniva insieme gli scienziati e i capi politici di ben cinque Continenti a Boulder, in Colorado, per discutere di una Terra fragile.  “Terra in pericolo” fu il titolo scelto dalla rivista per la copertina, con l'immagine di un pianeta impacchettato nella plastica come un monumento di Christo, che la firmò. A distanza di tre decenni, siamo passati da un “cambiamento climatico” a un'”emergenza climatica”, come sostiene il climatologo svedese Johan RockstromInterris.it lo ha chiesto al prof. Marcello Miglietta, dirigente di ricerca dell'Istituto di scienze dell'atmosfera Cnr Clima (Isac) di Padova.

Prof. Miglietta, siamo davvero al limite?
“Sì, direi a un punto di non ritorno. Gli effetti dei cambiamenti climatici stanno riducendo l'impatto sia alle nostre latitudini, sia in quelle regioni polari dove lo scioglimento dei ghiacci è a ritmi superiori rispetto alle nostre attese. C'è un'estremizzazione dei fenomeni come una maggiore intensità di alcuni eventi. Un altro problema è legato anche all'innalzamento del livello del mare”.

I recenti fenomeni meteorologici estremi hanno colpito anche l'Italia…
“Sì, e va detto che il problema in questo caso riguarda anche una gestione del territorio che ha generato il peggioramento di alcuni effetti. Certamente, la causa sono dei fenomeni molto intensi, ma è necessaria anche una gestione corretta del territorio”. 

Il Mediterraneo è diventato più fragile?
“Noi ricercatori definiamo il mar Mediterraneo un'area hotspot, cioè più soggetta a effetti con conseguenze amplificate, come cicloni o acqua alta. È vero, il clima non è fisso, ha un suo tasso di variabilità, però va aggiunto che è una tendenza che si è amplificata negli ultimi anni. Fenomeni come l'innalzamento delle acque o le trombe marine sono eventi che si sono intensificati maggiormente negli ultimi anni”.

Secondo lei, in quanto tempo la situazione s'è intensificata?
“Sui fenomeni molto localizzati non ci sono dati disponibili rispetto alle variazioni di temperatura o alle precipitazioni. Noi lavoriamo su simulazioni al computer e possiamo vedere gli effetti futuri. Ciò che si nota è una tendenza alla diminuzione di densità delle piogge con una maggiore frequenza di eventi molto intensi, aggravati dall'incuria del suolo, come dicevo poc'anzi”.

Cosa l'ha colpita maggiormente dei suoi studi sui cambiamenti climatici?
“Uno studio su Taranto, dove un grado in più nella temperatura può avere un forte impatto su fenomeni come le trombe d'aria. Basta davvero poco. Va poi rilevata una sequenza di acqua alta mai registrata prima. Venti anni fa nessuno guardava a questi fenomeni con il dovuto realismo. Oggi, invece, il nostro sguardo è cambiato”.

La de-carbonizzazione è l'unica strada possibile?
“Direi che è una strada obbligata. Supponendo che fermassimo le emissioni a zero, la concentrazione di gas non calerebbe nell'atmosfera, ma permarrebbe per anni, a seconda del tipo di gas, comunque decine, se non centinaia di anni. A questo si aggiunge il fatto che lo scioglimento del ghiaccio permafrost libera sacche di metano. L'impegno dell'Europa è notevole, perché è leader nella sensibilità climatica. Ma non pò fare nulla da sola, queste misure bisogna prenderle su scala globale”.

Quali sfide ci riserva il futuro?
“Bisognerà adattarsi. Senza essere catastrofisti, fra qualche anno il clima sarà differente, alcune zone in prossimità del mare sono a rischio. I problemi esistono e non giova a nessuno rimandare. Dovremo far fronte a problemi di approvvigionamento idrico e, soprattutto, considerare che saremo pronti a spostarci in zone più adatte quando i fenomeni climatici renderanno alcuni luoghi inadatti. Si tratta, comunque, di graduali, anche se tangibili”.

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