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Le particelle inquinanti vettori del Coronavirus?

Studi confermano un’associazione tra l’esposizione prolungata agli elementi inquinanti nell’aria e la gravità della COVID.

Il fattore inquinamento sembra essere quello che, più degli altri, ha influito sui tassi di mortalità e di diffusione dell’infezione da COVID-19 in Italia.
Sin da quando, a Whan, il Covid-19 ha fatto la sua comparsa, circolava il dubbio che il contagio possa essere favorito dall’inquinamento. Poi, tale dubbio si è rafforzato quando il virus ha cominciato a diffondersi nella Pianura Padana, uno delle aree più inquinate d’Europa.

L’inquinamento ambientale è un fattore importante

È noto che l’inquinamento ambientale aumenta la probabilità di malattie cardiovascolari, metaboliche e polmonari. Ragion per cui, nelle aree più inquinate, è maggiore la quota di popolazione ad alto rischio di sviluppare le complicanze da Covid-19.
Il particolato inquinante comporta, infatti, un incremento della risposta infiammatoria a livello polmonare. E questo aspetto, in presenza di Sars-Cov-2, può favorire la comparsa di sintomi più gravi.

Il Sars-CoV-2 si diffonde anche “cavalcando” le particelle in aria?

Un recente studio ha confermato che le particelle che sono alla base dell’inquinamento atmosferico possono fare da vettore per virus e batteri ed aumentarne la diffusione. Questo vale anche per il virus SARS-CoV-2.
La situazione italiana, in particolare, è stato oggetto di questo studio, che ha confermato l’esistenza di un’associazione, definita come “significativa”, tra un’esposizione prolungata agli elementi inquinanti nell’aria e la gravità della COVID-19, sia a livello di mortalità che a livello di infettività. Tali risultati potrebbero spiegare il fatto che il nuovo coronavirus abbia avuto un impatto maggiore su determinate regioni italiane piuttosto che su altre.
Questo studio, pubblicato su Environmental Pollution , è stato realizzato da un team internazionale di ricercatori tra cui Roberto Cazzolla Gatti, Professore associato dell’Università Statale di Tomsk, Russia, Alena Velichevskaya, ricercatrice della suddetta università, e da alcuni fisici dell’Università degli Studi di Bari e della sezione di Bari dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) tra cui Nicola Amoroso, Alfonso Monaco e Andrea Tateo.

Un’altra ricerca condotta in Italia, pubblicata sul British Medical Journal da Alessandro Miani, Presidente della Società di Medicina, e da un gruppo di colleghi di diverse università conferma questa tesi. “Abbiamo incrociato gli sfioramenti del Pm10 della soglia di 50 microgrammi su metro cubo per tutte le province italiane nel periodo 9-29 febbraio, con i nuovi contagi da Covid-19 registrati dopo il periodo di incubazione del virus. È risultato che dove c’era più Pm10 in aria un certo giorno, si registravano più contagi 15 giorni dopo” così spiega Miani. A ulteriore conferma di ciò, i ricercatori rendono noto che è stato rinvenuto Rna del Sars-CoV-2 nei filtri delle centraline che hanno raccolto il Pm10 a Bergamo a marzo. Questo dimostra che il virus era presente sulle particelle.

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