Sono sette milionii lavoratori che hanno paura di perdere il loro posto di lavoro a causa dell'avvento delle nuove tecnologie: robot e intelligenza artificiale. Quasi un operaio su due vede il proprio lavoro a rischio. L’85% dei lavoratori esprime una qualche paura o preoccupazione per l’impatto atteso della rivoluzione tecnologica e digitale (il dato supera l’89% tra gli operai). Per il 50% si imporranno ritmi di lavoro più intensi, per il 43% si dilateranno gli orari di lavoro, per il 33% (il 43% tra gli operai) si lavorerà peggio di oggi, per il 28% (il 33% tra gli operai) la sicurezza non migliorerà. Sono alcuni dei principali risultati del 3° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon, leader nei servizi per il welfare aziendale, con il contributo di Credem, Edison, Michelin e Snam. Ma come influiscono veramente le nuove tecnologie sul mondo del lavoro? Che effetto hanno sulle imprese? La scuola sta facendo abbastanza per orientare i giovani verso figure professionali sempre più hi-tech? In Terris ne ha parlato con il dottor Angelo Colombini, segretario confederale Cisl per le politiche dell'artigianato, cooperazione, energia, istruzione, ambiente, difesa del suolo, sviluppo del territorio, fondi comunitari, salute e sicurezza.
Dottor Colombini, cosa pensa di questo rapporto? Le sembra che emergano dati realistici?
“Partiamo da questo presupposto: i dati possono essere una provocazione anche vritiera se introduciamo tutto questo all'interno di una dimensione globale del sistema produttivo. Vuol dire che le nuove tecnologie devono interagire in tutto il sistema produttivo, ma anche in quello commerciale, della logistica, perché solo così può portare una preoccupazione maggiore ai lavoratori e alle lavoratrici. Basti pensare al settore dell'agricoltura che con le nuove tecnologie ridimensiona molto l'intervento della manovalanza. I sette milioni di cui parla il rapporto può essere considerato eccessivo come numero di persone che verrà interessato dallo stravolgimento, ma è veritiero come preoccupazione. Questo dipende molto anche dagli investimenti e dai finanziamenti, perché non tutte le imprese sono in grado di investire sulle nuove tecnologie, anche perché manca un credito agevolato da parte delle banche. Ricordiamo che il 90-95% delle nostre imprese che sono medio-piccole e, da un lato hanno subito la crisi di questi anni, dall'altro lato non sono state affatto aiutate dalla banche per quanto riguarda la riconversione o l'investimento sulle nuove tecnologie. Tutta la filiera produttiva, della logistica, dell'agro-alimentare, dei servizi, se vanno in automatizzazione, allora bisognerà preoccuparsi, ma oggi come oggi siamo molto distanti da questa politica. Introducendo le nuove tcnologie, è vero che perderemo dei posti di lavoro, ma ne guadagneremo di nuovi, dei profili professionali che serviranno per le attività produttive. Questo cambiamento non può avvenire da un giorno all'altro, ma nell'arco di alcuni anni e va accompagnato”.
Dal dossier realizzato da Enel e Symbola emerge che in cinque anni l'industria italiana dei robot sia cresciuta del 10%. Questo sta a dimostrare che il nostro Paese si sta orientando sempre di più verso l'innovazione tecnologica?
“Innanzitutto, il cambiamento di rotta è avvenuta con i finanziamenti sull'industria 4.0 che ha permesso a molte realtà produttive di investire, di robotizzare e introdurre nuove tecnologie. L'aumento che è avvenuto in questi cinque anni, da un lato è una cosa positiva, perché avevamo impianti e un'industria obsoleta di circa 15 anni. Con l'introduzione delle nuove tecnologie e del piano Calenda, questo numero si è ridotto di tre quattro punti, ma siamo ancora molto distanti rispetto all'obsolescienza degli impianti e dei macchinari della Germania che sono di 4-5 anni. Cosa vuol dire? Se un impianto è vecchio, vuol dire che provocano più insicurezza nei confronti dei lavoratori, oppure rischiano di inquinare di più l'ambiente esterno. Con nuovi macchinari e impianti, invece, si ridimensionano gli incidenti sui posti di lavoro e ridurre anche le emissioni. Però non bisogna pensare solo ai robot, che è una mera sostituzione del lavoratore. Le nuove tecnologie, invece, hanno un'attenzione maggiore, si sotto l'aspetto dell'organizzazione del lavoro, sia sotto l'aspetto della salute e sicurezza.
Come influisce lo sviluppo tecnologico sul mondo del lavoro?
“I robot nella sanità e nella chirurgia sono una cosa positiva perché sono molto più precisi rispetto alla mano dell'uomo, nonostante i nostri chirurghi siano eccellenti. Ho in mente l'utilizzo delle nuove tecnologie in lavori gravosi che salvaguardano sempre di più il lavoro: pensiamo ai droni. L'Enel per esempio utilizza i droni per i controlli sugli impianti di alta tensione; sostituire gli uomini con i droni in questo caso è una cosa positiva. C'è uno scenario che riguarda anche l'organizzazione del lavoro. Ci saranno molti cambiamenti all'interno dell'attività lavorativa, ci sarà molta più autonomia da parte delle persone e meno corpi intermedi che hanno l'ordine di comandare; si creerà un rapporto più stretto tra l'operaio e il dirigente, per cui certe competenze, da far maturare sempre di più, cambieranno l'organizzazione del lavoro. Le figure intermedie tra il direttore e il capoufficio o il capo reparto vanno mano mano scemando”.
La scuola fa abbastanza per orientare i nostri giovani verso mestieri sempre più hi-tech?
“Dovrebbe fare di più, perchè siamo in un momento di grande cambiamento. L'orientamento è una cosa molto basilare. Non è che per forza tutti i nostri ragazzi debbano fare tutti l'università, o il liceo classico o scientifico. E' giusto fare anche questi percorsi, non vorrei essere frainteso, però la scuola deve avere sempre un rapporto maggiore con il mondo del lavoro. Gli istituti tecnici superiori, che non sono l'università ma sono due o tre anni in più rispetto alla secondaria, ma sono scuole che permettono di creare figure professionali legate alle nuove tecnologie. L'85% di questi ragazzi, nel giro di 7-8 mesi trovano un posto di lavoro, mentre solo il 30-40 dei nostri studenti universitari trova impiego. C'è questo gap di differenza. Se noi dovessimo orientare sempre di più i nostri studenti verso queste scuole speciali, avremmo opportunità maggiori di occuparli in tempi molto brevi. Questo vuol dire non avere delle posizioni ideologiche tra la scuola e il lavoro, ma che la scuola sia al servizio del lavoro, e il lavoro sia però capace di accogliere i giovani. Serve una grande collaborazione”.
I robot e l'intelligenza artificiale possono essere considerati una minaccia per il futuro del lavoro umano?
“L'intelligenza artificiale e i robot devono servire per il bene della persona, far in modo che il lavoro possa essere un tramite per la dignità delle persone e ridimensionare la fatica, la pesantezza e la pericolosità di alcuni mestieri. Questo dipende molto da un lato dalla politica, dall'altro dalle imprese, se effettivamente vogliono utilizzare queste nuove tecnologie per il bene del Paese, anche attraverso un sistema produttivo che non può essere bloccato verso l'obsolescenza”.
L'Italia, dal punto di vista dell'innovazione tecnologica, come si classifica in Europa?
“Sicuramente dietro a Germania, Francia e Inghilterra. Queste tre nazioni, in questi anni, prima di noi, hanno finanziato e aiutato le fondazioni delle scuole e le imprese. Il primo compito è quello del governo che se ha a cuore un'innovazione tecnologica deve aiutarla. Stiamo attenti però, le nuove tecnologie, anche nelle pubblica amministrazione, da un lato possono aiutare a sveltire il lavoro, ma dall'altro possono essere un bagaglio di efficienza per aumentare il Pil. In Francia, Germania e Inghilterra, il Pil aumenta nel momento in cui vengono automatizzati certi meccanismi della pubblica amministrazione”.