Riprendendo l’espressione di san Giovanni (“Il Verbo si fece carne” Gv 1,14), la Chiesa chiama “incarnazione” il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto una natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza. La Chiesa canta il mistero dell’incarnazione in un inno riportato da san Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8). Come sottolineato dal teologo Ettore Malnati, la cristologia nel magistero di Papa Francesco “principalmente la troviamo nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium”. Ed è una cristologia incarnazionista, “intrinsecamente legata alla proclamazione ed alla accoglienza del kerygma”, ovviamente non solo quale cuore del Vangelo, ma “dello stesso mistero e missione di Cristo”. Solo ponendo il Verbo incarnato e la presenza nella storia dell’evento Cristo si può comprendere l’opera di salvezza voluta dal Padre, resa operante dall’amore dello Spirito e realizzata da Cristo Gesù, vero uomo e vero Dio, che dona all’intera umanità quella giustificazione perduta a causa del peccato di Adamo.
La novità più rivoluzionaria del cristianesimo è proprio l’Incarnazione. Ecco l’irruzione di Dio nella storia umana. Inviando suo figlio, manifesta il suo amore infinito e riconosce a ogni uomo una dignità che nessun altro mai gli darà. E il figlio di Dio, uomo tra gli uomini, disvela il volto del Padre, dà quasi una concretezza fisica alla sua persona. E, questo, con i gesti straordinari che compie, con le parole altrettanto dirompenti che pronuncia. Come il “discorso della montagna”. Forse non era andata proprio come Matteo l’ha raccontata. Più che un discorso unico, erano probabilmente parole dette in luoghi e momenti diversi, e poi messe assieme. Il posto non era propriamente una montagna, bensì una spianata a sud-ovest di una collina, et-Tab-gah, vicino a Cafarnao. Ma c’era il ricordo del Sinai, il monte su cui Dio aveva consegnato a Mosè le tavole della legge. E Matteo ha cambiato un po’ le cose per dare, nei contenuti ma anche visivamente, un senso di continuità, e non di rottura, con la tradizione mosaica. Infatti, non era una rottura, questo no. Ma neppure si può negare lo spirito decisamente innovativo del discorso di Gesù. Pur richiamando quella mosaica, la legge evangelica la completa, perfezionandola profondamente su vari fronti: nei precetti della concordia, della castità, del matrimonio, del giuramento, della vendetta, della carità.
Lì dentro ci sono i principi basilari della religione cristiana. A cominciare dal prologo, le Beatitudini. Beatitudine come annuncio della vita eterna, con quell’incredibile promessa di una felicità superiore. Beatitudine come impegno del cristiano a costruire la pace e la giustizia già qui, nel mondo terreno, preparazione di quello celeste. Beatitudine come stile di vita, perché la vera vita cristiana è chiamata alla mitezza, alla purezza di cuore, alla misericordia, alla testimonianza della giustizia; dunque, tutto molto diverso da una imposizione di leggi, da un moralismo fine a se stesso, da un attaccamento eccessivo alle cose. Era, appunto, la “diversità” del cristianesimo.
Anche nel modo di pregare. Recitando per la prima volta il Padre nostro, Gesù mostra il volto autentico di Dio, ed è il volto di un Padre buono, misericordioso, compassionevole; tanto che da allora l’uomo comincia a chiamarlo per nome, a dargli del tu: “Padre nostro che sei nei cieli…”. Non solo, ma, insegnando quella preghiera, Gesù rompe definitivamente con l’attitudine antica, di tenere lontano l’uomo da Dio, la terra dal cielo. L’annuncio della vita eterna non può essere interpretato come un disinteressarsi del mondo, dei problemi umani. Il Vangelo va vissuto concretamente, sia nella dimensione spirituale sia in quella esistenziale. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Le prime comunità cristiane recitavano il Padre nostro tre volte al giorno, come rinnovamento della professione di fede. Più tardi, venne impiegato anche per la preparazione del battesimo dei catecumeni. E così, per secoli, la “preghiera del Signore” scandirà i ritmi quotidiani della vita cristiana. Resistendo a tutte le bufere del mondo, e a tutte le divisioni e i contrasti nella Chiesa.