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La violenza e l’indifferenza con cui viene vilipeso e umiliato Cristo

Una breve riflessione nate dalla lettura del bell’articolo di Galeazzi “L’indifferenza è peggio dell’odio” che offre l’occasione per ritornare su alcuni aspetti della vita ecclesiale che non possono non suscitare interrogativi.

“Oggi nella culla della cattolicità viene vilipeso e umiliato Cristo come accadde duemila anni fa sul Golgota, ma le reazioni sono flebili e quasi di maniera”. E’ vero. Quello che colpisce non è solo la violenza con cui si manifesta l’odio a Cristo, per altro già annunciata da Gesù che chiamò beati coloro che saranno perseguitati per il suo nome, ma la sostanziale indifferenza con cui questo viene accettato da chi pure si professa fedele a Cristo. Questo avviene anche nella culla della cattolicità e riguarda sia i sempre più frequenti episodi di odio anticristiano che segnano le cronache del nostro Paese sia il modo con cui vengono messi in un angolo (molto ben nascosto) le notizie di questi fatti, sempre più numerosi, accaduti in decine di stati, anche di antichissima evangelizzazione e abitati da centinaia di milioni di cristiani. Si tratta delle più grandi persecuzioni della storia, come ci ha più volte ripetute Papa Francesco, ma sembra non vogliamo vederle: per paura, per vergogna o solo per insipienza? Non solo non se ne parla ma neppure si prega, se non forse in modo “privato”, come se fosse disdicevole ricordare nei gesti comunitari quanto sta avvenendo.

Sarebbe così traumatico inserire tra le tante (e non sempre riuscite) preghiere dei fedeli che si recitano nelle Messe festive il ricordo di chi quotidianamente soffre a causa della loro fede che è anche la nostra? A questo proposito si evoca spesso l’inopportunità di gesti che risulterebbero “divisivi” o, peggio, potrebbero confondersi con tematiche e atteggiamenti da “guerra di civiltà”, preoccupazioni che dovrebbero sparire solo ricordando che cristianamente la preghiera per i persecutori accompagna sempre quella per i perseguitati! Questo silenzio finisce col mettere tra parentesi un dato decisivo per la Fede: l’adesione a Cristo, iniziata col Battesimo e sostenuta dalla pratica cristiana, stabilisce un legame (“siamo membra gli uni degli altri”) che dà origine a quello che San Paolo VI chiamò “un nuovo popolo”.

E’ un oblio che, nel tempo, vela e rende inefficace anche la più ferrea volontà di trasmettere il fondamento della tradizione apostolica. Approfitto per aggiungere un’altra piccola notazione, questa volta critica. Non contesto l’esistenza nella Chiesa di “polarizzazioni ideologiche” –  “da un lato i puristi della fede contrari a qualunque apertura alla modernità e dall’altro i fautori di un continuo aggiornamento di forme e contenuti dell’appartenenza religiosa” – ma non credo che esse ne rappresentino il primo problema, causa delle difficoltà che oggi registriamo a seguire papa Francesco e la sua esortazione ad essere una Chiesa “in uscita”.

Lo schema progressismo-conservatorismo nasce in un contesto culturale che programmaticamente ignora la presenza attiva di Dio nella storia come Padre (provvidenza) e come compagnia all’uomo nell’avventura della vita. Anzi sempre più avversa anche la sola idea di Dio che vede come un attentato alla propria libertà. Per essere presenza nel “cambiamento d’epoca”,  di cui Papa Francesco ci ha più volte incitato a prendere atto, due domande sono decisive per il cristiano: come (e perché) l’uomo può oggi riconoscere Cristo come Salvatore? Come (e perché) la Chiesa rappresenta un punto fermo (ineliminabile) nel percorso che la vita quotidianamente ci propone e chiede a ciascuno di compiere verso la scoperta della vita “eterna”? Questioni ambedue ben distanti dalle beghe ideologiche che, tra l’altro, interessano soltanto un piccolo nucleo di “addetti ai lavori”.

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