Veniva da lontano, l’idea di una “via religiosa alla pace”. A lanciarla, per primo, era stato Dietrich Bonhoeffer. Infuriava il nazismo e l’eroico pastore luterano- fatto più tardi uccidere da Hitler- aveva proposto un’Assemblea mondiale delle Chiese cristiane che gridasse “la pace di Cristo al mondo impazzito e teso ad autodistruggersi”. 50 anni dopo, la proposta era stata ripresa e attualizzata da un fisico e filosofo tedesco, Carl Friedrich von Weizsäcker, il quale ci aveva scritto un libro ed era andato a parlarne con Giovanni Paolo II.
Karol Wojtyla era pienamente d’accordo. Anche perché, appena eletto, aveva voluto incontrare il patriarca ortodosso di Costantinopoli, intendendo confermare l’impegno irrevocabile della Chiesa cattolica- e del nuovo Papa- nella ricomposizione dell’unità cristiana. Era andato anche nella Germania federale, primo Pontefice a mettere piede su quella terra dal tempo della Riforma. Era andato in Inghilterra, patria dell’anglicanesimo, riuscendo a smantellare gli ultimi residui di anti-papismo. E, nello stesso tempo, aveva ridato impulso al dialogo interreligioso, viaggiando dall’India (induismo) a Casablanca (islam), e compiendo la storica visita alla sinagoga di Roma.
Viaggi e contatti erano stati estremamente istruttivi per papa Wojtyla. Anzitutto, era emerso chiaramente come il dialogo ecumenico non potesse consistere soltanto nell’incontro tra due Chiese a metà strada, e quindi nell’equilibrio tra i rispettivi compromessi, ma, al contrario, dovesse partire dal comune patrimonio di fede. Non solo, ma, allargando il discorso all’intero mondo religioso, Giovanni Paolo II aveva maturato la convinzione che la “sapienza” di Dio, anziché riservata solamente ad alcuni, fosse una porta spalancata a tutti gli uomini.
Dunque, un punto di convergenza in cui i credenti delle diverse religioni avrebbero potuto riconoscersi come figli di uno stesso Padre e, addirittura, come fratelli. In più, c’era da tener conto del continuo aggravarsi della situazione internazionale.
Due Paesi islamici, l’Iran e l’Iraq, erano in guerra tra di loro, con i soldati dei rispettivi eserciti che invocavano lo stesso Dio. E perciò, se le religioni avessero continuato a combattersi, o anche solo a ignorarsi, quale credibilità avrebbero avuto nel parlare di pace?
Fu importante che, in quel momento, Roma avesse messo definitivamente da parte l’esclusivismo cattolico – retaggio del tempo in cui si riteneva unica garante dell’ordine mondiale – e avesse riconosciuto a tutte le Chiese e le religioni una funzione ugualmente decisiva per la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli. Ma questo poteva bastare? Alla fine, Giovanni Paolo II ebbe un quadro preciso, e ruppe ogni indugio: “Una preghiera di tutte le religioni per la pace, ecco che cosa ci vuole”.
E decise che la città di san Francesco fosse la sede più adatta per un evento del genere. E così fu. E lì ad Assisi si ebbe la chiara sensazione che ci fosse una comunione fraterna, una straordinaria armonia. Quella preghiera – dove, come in tutte le preghiere, avviene l’incontro tra Dio e l’uomo- obbligò le religioni a un esame di coscienza, a un atto di purificazione. Impegnandole a ripensare le cause all’origine dei conflitti, e quindi a tornare a essere costruttrici di una cultura di pace, e a ripudiare per sempre ogni forma di violenza, ogni legittimazione della guerra, del terrorismo. La Giornata mondiale di preghiera per la pace – onorata dalla sospensione delle guerre in tutto il mondo, non una sola vittima!- fu certamente l’iniziativa più audace, più coraggiosa, più “nuova” di Giovanni Paolo II.