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Un bilancio di fine legislatura

Con lo scioglimento delle Camere da parte del Presidente Mattarella si è conclusa definitivamente questa legislatura che ha visto, con il 2017, l’Italia uscire da un periodo orribile di stagnazione riagguantando un tasso di crescita onorevole con un + 1,4% sul Pil 2016 stimato dall'Istat, dopo un triennio che aveva visto l’uscita dalla recessione nel 2014 per segnare un incremento costante dello 0,8% nel 2015 e dello 0,9% nel 2016.

Non si può nascondere che questi ultimi cinque anni non si siano aperti nel migliore dei modi, con l’impossibilità di Bersani, leader della coalizione uscita in vantaggio dalle urne, nel formare una maggioranza a sostegno di un governo, cosa che portò all’insediamento del Governo Letta che, con un sostegno “allargato” si pose nel solco della precedente esperienza di Mario Monti.

Come il giudizio sull’operato dell’ex commissario europeo ed ex rettore dell’università Bocconi non può che essere, a nostro parere, negativo – poiché mostrò una completa incapacità di gestione di uno Stato in crisi e di rilancio della sua economia, preferendo una mera strategia di consolidamento di bilancio (cosa che portò anche al peggioramento del rapporto debito/Pil, vero indicatore della solidità dei conti nazionali -, così anche il giudizio su Enrico Letta, al di là della persona, non può essere positivo.

La situazione contingente, ad essere onesti, non fu di aiuto al suo esecutivo che finì per portare avanti le politiche di stretta fiscale messe in capo da Monti che depressero sia la domanda interna sia il livello degli investimenti nel Paese riportando l'Italia in recessione con una crescita negativa pari a -2.8% del PIL nel 2012.

Con Matteo Renzi, che prese il posto di Enrico Letta nel febbraio 2014, si avvertì un cambio di sentiment in Italia, spinto dal rinnovamento dei volti al governo e dall'annuncio di un programma riformista da parte del rottamatore. 

Volendo vedere, in effetti, i numeri sembrerebbero dare ragione all’operato di questi anni, sia da parte di Renzi stesso sia del suo successore Gentiloni, salito alla presidenza del consiglio dopo le dimissioni del primo a seguito della sconfitta referendaria. E' innegabile, tuttavia, che la maggioranza a guida Pd abbia mancato l’appuntamento con la storia.

Nessuno può nascondere l’attivismo dei due esecutivi, che hanno portato avanti diverse riforme. Ciononostante queste sono da giudicarsi insufficienti e generalmente poco efficaci nel concret. La crescita che si è registrata, quindi, è più da imputare alla ripresa globale della zona euro e alla stabilità istituzionale

Il punto focale, però, è che nonostante tutte le attività portate a termine i punti critici del sistema Italia non sono stati toccati e questo nonostante l’ampia maggioranza e il consenso iniziale che la figura di Matteo Renzi aveva tra gli italiani.

Si parla, ovviamente, di fisco, burocrazia e giustizia civile. Mentre per il secondo e il terzo argomento sarebbe stato necessario un mandato ben più lungo, a livello fiscale un intervento strutturale sarebbe stato possibile e avrebbe avuto sicuramente un effetto volano nella ripresa.

Non parlo, ovviamente, di una riduzione istantanea della pressione fiscale, poiché questa si scontra con le esigenze di bilancio, con gli impegni sulla stabilità dei conti presi con l’Unione Europea e, pure, con i mercati stessi. Mi riferisco, piuttosto, a interventi mirati, da una parte, per ridurre i costi di famiglie e imprese, soprattutto sul fronte energetico (che vedono le bollette italiane come le più care del continente, proprio per la componente fiscale) e sulla semplificazione del sistema impositivo, riducendo i capitoli di imposta, rimodulando le aliquote e accorpando le scadenze in due/tre appuntamenti annui.

Può sembrare una banalità ma anche solo una semplificazione del sistema sarebbe un miglioramento strutturale che renderebbe la vita di famiglie e imprese, soprattutto, più semplice e, in un certo senso, economica, divenendo, di fatto, un aiuto indiretto, forse ben più importante di sussidi e agevolazioni.

L’impeto riformista, invece, è andato verso operazioni che, pur rappresentando sulla carta un miglioramento, sono state poco più che interventi di facciata e di maquillage.

Il Jobs Act, ad esempio, non ha portato dei veri miglioramenti che, invece, si sarebbero visti anche solo con un riordino delle tipologie di contratto subordinato e parasubordinato, magari riducendo le decine di modelli esistenti a quattro tipologie (contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a tempo determinato e stagionale unite al contratto di collaborazione esterna), e a una rimodulazione della contribuzione, senza toccare altri istituti come le garanzie in caso di licenziamento illegittimo che già erano state apportante in maniera incisiva con la c.d. riforma Fornero.

Pure i famosi 80 euro sono stati, a tutti gli effetti, un pasticcio. Sarebbe stato ben più efficiente, dal lato del sostegno della domanda, la previsione di una no tax area per tutti, in caso con una revisione dell’aliquota marginale per i redditi più elevati. Questo se si fosse voluta mantenere l’impostazione del vantaggio solo per i redditi medio bassi che avrebbe evitato la restituzione del vantaggio fiscale ottenuto a conguaglio se, per un motivo o per l’altro, il reddito annuo avesse superato i rigidi limiti previsti nella norma relativa.

Sull’altro lato della medaglia, però, ci sono anche degli aspetti positivi come l’abolizione completa di Imu e Tasi sulla prima casa e la riduzione del canone Rai, anche se sarebbe stata meglio la totale abolizione unita alla vendita e all’assegnazione sul mercato del contratto di servizio pubblico. Ci sono poi il tetto alle remunerazioni dei manager pubblici, purtroppo soggetto a fin troppe eccezioni (come nel caso della magistratura ma, pure, alle remunerazioni nella stessa RAI), l’ampliamento del bonus bebè a sostegno della maternità, la previsione di investimenti per la digitalizzazione del Paese ecc.

Il giudizio finale della legislatura, quindi, se espresso con un termine matematico potrebbe essere indicato come non negativo, certamente una spanna sopra all’azione del sopravvalutato Monti. E tuttavia avrebbe potuto essere differente se nel dicembre 2016 non fosse stata respinta, per via referendaria, la riforma costituzionale su cui Matteo Renzi e il suo governo puntavano pesantemente per continuare nel progetto riformista che avevano in mente.

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