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I tre soggetti della presa in carico di una persona con disabilità

Papa

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Prendere in carico significa letteralmente “farsi carico dei problemi dell’altro”. Ma chi deve prendersi carico della persona con disabilità?

  • Sicuramente i genitori, perché sono i primi preposti alla cura dei figli, alla loro crescita, al loro futuro. Ma è giusto che la presa in carico sia solo dei genitori? È giusto far arrivare allo stremo i genitori che seguono 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, 365 giorni l’anno il loro figlio con disabilità, senza sapere cosa ne sarà di lui quando loro non saranno più in grado di accudirlo?
  • I fratelli. Allora se i genitori vengono a mancare, diamo il fratello disabile agli altri fratelli/sorelle, sempre che ci siano. È giusto ipotecare fin d’ora il futuro dei “siblings”? Vuoi andare a studiare all’estero? Non puoi, devi curare tuo fratello. Vuoi andare a lavorare in America? Non puoi. Devi curare tuo fratello. Ti vuoi sposare e trasferirti? Non puoi. Devi curare tuo fratello. Si potrebbero fare mille esempi. Pur con tutto il bene che una persona possa volere al suo fratello “speciale” non possiamo pretendere tutto questo, almeno che non sia una sua scelta, non un’imposizione.
  • Le istituzioni, la società. Forse sì, ma la presa in carico deve essere pensata da subito, quando il bambino è piccolo. E non far arrivare al punto che mamme anziane vivono con i loro figli disabili, ormai anziani anche loro, e chissà cosa succederà dopo. Eh no! Occorre pensare subito a come aiutare la famiglia in modo da non farla impazzire. Tanto si è parlato di progetto di vita, da più di 20 anni, e ne stiamo ancora parlando, e tante richieste giacciono nei cassetti dei Comuni. Ma questa è la via: il progetto di vita, personalizzato e partecipato che si evolva e si aggiorni con il crescere della persona disabile. Nel progetto di vita viene delineato il percorso di realizzazione della persona, dei suoi sogni e desideri, dei sostegni di cui ha bisogno. La persona deve essere inserita nella comunità, e la comunità deve essere preparata ad accoglierla.

Utopia, direte voi! Poi mi chiama una famiglia e mi dice che un’operatrice che occupava il loro figlio autistico grave per tre pomeriggi alla settimana, è andata in maternità e non si trova un altro educatore per seguire questo ragazzone di 19 anni, che senza una guida adeguata, passa le giornate sul divano e non progredisce nei suoi percorsi di autonomia, anzi rallenta sempre più. Un po’ di scoraggiamento ti viene. È possibile che debbano essere sempre le famiglie a bussare, a chiedere, a spiegare cose note e stranote alle istituzioni? È notizia abbastanza recente che la misura B1 (aiuto economico alle famiglie con disabili gravissimi) viene decurtata e sostituita dai servizi. Bellissima idea, peccato che i servizi non ci sono, ma proprio non esistono e tanto meno gli operatori che servirebbero. E così il nostro ragazzone vaga con mamma e papà per mano senza una meta, senza un futuro. Mah….

Emanuela Nussio: