Opinione

La tentazione della nostalgia

Celebrando nella basilica di San Pietro il 60° anniversario del Concilio Vaticano II, papa Francesco si è chiesto se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi. Il Pontefice ha richiamato la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro.
Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo – o l’”indietrismo” – che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro.
Durante la fase preparatoria del Concilio, un vescovo della Polinesia aveva scritto scusandosi di non poter proporre nulla vivendo ancora “tra popolazioni dell’età della pietra”. Ma adesso quel vescovo era lì, nel centro della cattolicità, a rappresentare il suo popolo. Ed era appunto quell’insieme di esperienze, piccole o grandi che fossero, era quella straordinaria varietà di razze, di lingue, di culture, di tradizioni, era tutto questo a far scoprire la ricchezza di una Chiesa realmente mondiale, e non più divisa tra primi della classe e quelli degli ultimi banchi.
In apertura del Vaticano II la lunga teoria di vescovi si dirigeva verso l’obelisco; poi, con una svolta ad angolo retto, puntava diritto al portone della basilica vaticana. E, lì dentro, balzavano subito agli occhi altre immagini inedite. Altri significativi cambiamenti di “scenario”. C’erano re, capi di Stato e di governo, ma ora soltanto come ospiti, invitati: e non più, come in passato, quando il potere temporale pretendeva di immischiarsi nelle vicende della Chiesa, e gli imperatori potevano addirittura convocare le assise ecumeniche e comunque parteciparvi con diritto di voto consultivo. E, lì accanto, c’erano gli osservatori delegati delle altre Chiese cristiane: non più considerati come eretici, “fratelli separati” da riportare all’ovile, ma compagni di viaggio in un comune cammino verso la ricomposizione dell’unità.
E quindi, l’immagine più forte, il momento decisivo per capire quanto di rivoluzionario stesse accadendo. Cioè, il discorso di Giovanni XXIII, un discorso tutto rivolto a proiettare il Concilio in una dimensione pastorale, missionaria, positiva, ecumenica. Le critiche ai “profeti di sventura”. La distinzione tra la sostanza dell’antica dottrina del “depositum fidei” e la formulazione del suo rivestimento. E l’esortazione alla Chiesa ad avere verso il mondo un atteggiamento ispirato più alla “medicina della misericordia” che non alla “severità”, non a “nuove condanne”. Infine, il “balzo in avanti” che il Vaticano II avrebbe dovuto compiere verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina.
Gianfranco Svidercoschi

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