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Il tempo di Heidegger

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Nel 1905 un giovane Albert Einstein, appena ventiseienne, pubblica la teoria della relatività ristretta con la quale mette fine alle leggi della meccanica classica fondata sulla geometria euclidea e sulla fisica di Newton, rivelando che lo spazio ed il tempo non sono elementi assoluti di riferimento ma variano in relazione alla posizione dell’osservatore e si influenzano a vicenda, tanto da essere definibili in un solo elemento, chiamato spaziotempo. La ricaduta di queste nuove scoperte sul pensiero filosofico riguarda la crisi del concetto di assoluto che viene ridimensionato con l’introduzione del tempo quale elemento di riferimento dell’essere: si inizia a dubitare che il mondo sia come lo vediamo e si fa strada l’idea che sia invece come lo pensiamo e che quindi spazio e tempo non siano grandezze fisiche assolute ma categorie della mente per classificare ciò che osserviamo.

Martin Heidegger ha dieci anni meno di Einstein e le sue lezioni di filosofia alle università della Germania centromeridionale risentono delle lezioni a Berlino del genio della fisica nonché del pensiero di Edmund Husserl, suo docente che sostituirà nel 1926 all’università di Friburgo. In quel periodo pubblica Essere e Tempo in cui riduce la sostanza dell’essere alla sua presenza: l’uomo non è, ma c’è, legando, quindi, la condizione dell’essere alla sua esistenza, che chiamerà dasein, esserci. Il suo maestro aveva già distinto tra fenomeni fisici e fenomeni psichici, evidenziando l’apporto della coscienza, della rappresentazione intellettiva interiore, nella fenomenologia della realtà che pertanto si trasformava nella sua apparenza. Esserci, per Heidegger, significa partecipare alla fenomenologia del mondo, interferire con essa, restituire all’uomo il suo ruolo di soggetto dell’azione conoscitiva e non limitarlo all’oggetto come altro da sé: non più chi è l’uomo ma chi sono io e cosa faccio nel mondo, come partecipo ad esso, qual è il mio contributo all’esistenza dei fenomeni che ci appaiono.

Allora l’avvenire diventa il fulcro dell’esistenza e la possibilità di scegliere in maniera autentica la propria esistenza si proietta verso il momento finale in cui la scelta si realizza definitivamente ed irreversibilmente dando il senso ultimo all’esserci stato. Il legame tra la scelta e la realizzazione di sé, attraverso l’autenticità dell’attuazione della scelta e non della sua mera possibilità, appartiene alla riflessione di Kierkegaard sull’angoscia, che Heidegger rivaluta e supera con l’inserimento dell’elemento temporale. Il momento esistenziale più autentico è l’attesa poiché in essa si realizza il progetto che l’uomo ha proposto per l’avvenire, unico momento in cui realizza la propria scelta esistenziale e diviene ciò che è. Non quindi essere, ma esserci. Lo aveva anticipato Eraclito, affermando che la casa dell’uomo è il destino.

Ed è quindi il tempo che fa l’uomo, poiché egli nel tempo procede avanti nella sua esistenza e segna il percorso che dipende dalle scelte che compie, sempre in relazione con gli altri e con la natura, da cui non può prescindere perché immerso in essa e tra essi, senza possibilità di astrazione ma in riferimento al rapporto che ne stabilisce, volontariamente o inconsapevolmente. I semi di Spinoza e Kierkegaard cominciano a germogliare, favoriti dalle scoperte scientifiche che confermano l’esistenza nella relazione intersoggettiva ed oggettiva.

Restano in Heidegger le scoperte sulla insufficienza del linguaggio a rivelare la verità, che appunto si manifesta come nascosta (velata nuovamente), di modo che noi non riusciamo a comprenderla ma ne cogliamo l’essenza, così come non vediamo la luce ma ne percepiamo l’esistenza attraverso gli oggetti che illumina. Negli ultimi anni della sua vita, ad ottant’anni compiuti, propone l’abbandono dell’uomo in atteggiamento mistico nel fluire del mondo per consentire che la tecnica ritorni al suo ruolo di strumento per la realizzazione del vero e del bello nel mondo, e non ridotto a mero strumento di misurazione dell’utilizzabilità del mondo, che finisce per cancellare l’uomo. Ed in una celebre intervista del 1966 afferma che solo un dio ci può salvare.

Roberto de Tilla: