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Lo stile imparato dalla Chiesa, nel cenacolo, a Pentecoste

Pentecoste è l’evento interiore, ma molto reale, che segna…la fine del lockdown della prima comunità cristiana: i 50 giorni del confinamento nel cenacolo (con poche uscite, per andare a pescare, perché bisogna pur mangiare qualcosa…), dove gli apostoli – ”perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria” – si interrogano sul futuro. Soprattutto dopo l’Ascensione, devono elaborare il lutto di una duplice perdita: quella di Giuda e, soprattutto, quella di Gesù.

La scelta più facile era quella di lasciar perdere: era stata una bella avventura, quella con Gesù; “speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”, ma ci eravamo illusi. Tutto è finito e bisogna tornare al tran-tran di ogni giorno

Ma le parole di Gesù continuavano, nonostante tutto, a risuonare in loro: “non vi lascerò orfani…Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome vi insegnerà ogni cosa” (Gv 14, 18.26), aveva detto nel cenacolo il giorno prima di morire; e poi la sera di Pasqua: “restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 49) …

Ed ecco che mentre, in preghiera, cercano di ritrovare il filo di una speranza che sembra ormai impossibile, “venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano…e tutti furono colmati di Spirito Santo” (Ar 2.4). Proprio come a Nazaret accadde a Maria, la donna portata del vento: “lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”, le aveva detto l’angelo (cfr. Lc 126-38) …E allora tutto cambia. E si compie anche per gli Apostoli la parola detta da Gesù a Nicodemo: “Dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,7-8).

E il cenacolo non è più una prigione o un nido nel quale difendersi, ma diventa il grembo di un nuovo cammino: a Pentecoste si aprono le acque e, nella potenza dello Spirito, nasce la Chiesa in uscita. E’ definitivo: “la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano” (Papa Francesco).

Ma uscire davvero, e non per finta, chiede oggi alla Chiesa, in questo cambiamento d’epoca segnato dalla rivoluzione digitale e dalla pandemia, di farsi capire da tutti. A Pentecoste, gli apostoli “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2,4); e Pietro, a quanti ascoltavano “stupiti e fuori di sé per la meraviglia” (At 2,7), annuncia la bella notizia: “questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti siamo testimoni” (At 2,32).

Celebrare e vivere la Pentecoste chiede allora alla Chiesa di “lasciare il proprio terreno per mettersi sul terreno dell’altro” (Carrara), imparandone i linguaggi e le domande di senso, anche quelle silenziose o difficili da capire. I discepoli di Gesù sono chiamati oggi a “dire nel linguaggio di tutti ciò che il mondo non sa dire” (Collin): a praticare le parole di tutti per dire a tutti una Parola che viene da Altrove!

Con le parole molte belle dette, nel 2015, al Convegno ecclesiale di Firenze, al quale il Papa continuamente rinvia: “Si tratta di non limitarsi ad assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che rimangono dentro la fortezza osservando dall’alto ciò che accade intorno, bensì l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di incidentarsi e di sporcarsi le mani” (dalla sintesi dei tavoli di lavoro sul verbo uscire). E’ lo stile imparato dalla Chiesa, nel cenacolo, a Pentecoste!

Mons. Calogero Marino, vescovo di Savona-Noli

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