C’è Chiara che voleva lasciare il compagno che la trascura e si ritrova incinta di lui. Giulia che non se la sente di continuare perché ha grosse preoccupazioni economiche, dato che né lei né il marito lavorano. Letizia che è rimasta incinta mentre sta attraversando un periodo di depressione. Francesca che ha una malattia all’utero e tutti i dottori le hanno detto di abortire.
L’inizio dell’anno è tempo di bilanci: sono 2916 le mamme (ma qualche volta anche i papà, i nonni, gli zii…) che in questi ultimi 3 anni hanno chiamato al numero verde 800 035 036 o scritto al numero WhatsApp 342 745 7666 per le maternità difficili della Comunità Papa Giovanni XXIII. Un numero che è molto aumentato dopo il 2019, quando la pagina internet dedicata è stata ottimizzata per i motori di ricerca ed è stato attivato anche il canale WhatsApp. Donne che hanno preso strade diverse: chi ha rinunciato a continuare la gravidanza, chi ci ha provato, di tante non abbiamo saputo più nulla.
Questo ci ha permesso di avere un contatto con le gestanti mai così intenso come oggi. E di avere uno spaccato della situazione delle maternità difficili e dei motivi che portano le donne ad abortire negli anni Venti del XXI secolo. E di cosa si può fare per sostenerle. Il primo elemento problematico che emerge con chiarezza dall’ascolto è l’influenza dell’ambiente circostante, delle persone con cui la neomamma vive. Qualcuno attorno non accetta il bimbo, o fa mancare il suo aiuto. A partire dal partner, compagno o marito che sia: qualcuno se ne è andato alla notizia della gravidanza, qualcun altro è violento, l’ha minacciata, non ne vuole sapere di quel bambino. Ma anche i genitori di lei non aiutano, e tante volte sono i primi a spingere la figlia a disfarsi del nipotino.
L’opinione di queste persone sulla gravidanza ha un peso determinante nella scelta. Normalmente, anche se la gravidanza è inattesa, la donna si interroga se c’è spazio per accogliere il nuovo arrivato; ma quando si trova intorno persone che non la sostengono, la svalorizzano, non hanno alcuna attenzione verso il piccolo, si sentono isolate e sono ferite da questi giudizi pesanti. I loro sentimenti verso il bambino cambiano, subentra la chiusura. A questo quadro spesso si sommano altre difficoltà: un lavoro precario che rischia di saltare, una situazione economica già precaria, avvenimenti recenti (un lutto appena avvenuto, un’attività avviata da poco…), problemi fisici o psichici precedenti. Tutto questo non può non avere conseguenze sulla salute della donna: e così sono frequenti i racconti di paure, di ansie, di sentimenti di depressione di fronte a una situazione percepita come superiore alle proprie forze. In aggiunta ci sono le paure per tutto quello che potrebbe succedere durante la gravidanza. La solitudine ingigantisce queste paure.
E la frase che chiude tante telefonate è: “Non vedo vie di uscita!” Si convincono che la cosa giusta da fare, per il bene di tutti, sia una sola: “Se abortisco, soffro io ma proteggo la mia famiglia, i miei figli e non creo problemi agli altri”. Una scelta intrapresa per un malinteso spirito di sacrificio, per non essere di peso. Tanti ancora oggi parlano dell’aborto come di una scelta di libertà per la donna. Troppe volte la realtà ci dice che dove c’è aborto non c’è libertà e dove c’è libertà non c’è aborto.
Cosa può offrire chi risponde alle loro chiamate? La cosa più importante: una relazione di sostegno e valorizzante. Da una telefonata o un messaggio possono nascere ore ed ore di dialogo al telefono o in chat, in cui si offrono ascolto, comprensione, rassicurazioni, spunti di riflessione. Un affiancamento che porte le donne a scoprire il valore dell’esperienza che stanno vivendo ed il dono prezioso che hanno dentro di sé, un dono che le altre persone attorno non hanno ancora apprezzato (ma lo faranno) ed inoltre che loro stesse hanno un valore straordinario, anche se stanno attraversando un momento di difficoltà e confusione. Un prezioso rinforzo viene da chi in passato ha attraversato esperienze simili ed è disposta a portare la sua voce.
Al dialogo segue la progettazione condivisa di possibili vie d’uscita. Anche qui il ruolo degli operatori è fondamentale: dialogo col compagno, coi genitori, contatti coi servizi sociali, con associazioni di volontariato sul territorio, con legali che diano supporto per il riconoscimento di diritti, con medici per possibili problemi di salute del bambino. Questa vicinanza concreta fa sentire alla mamma di non essere da sola, che qualcuno crede in lei e nel suo bambino. E allora avviene il miracolo dell’apertura alla vita.
Tanti pensano che la prima cosa da fare per ridurre gli aborti sia di erogare aiuti economici. Noi negli 2 ultimi anni abbiamo accompagnato decine e decine di mamme (di 135 siamo certi, ma senz’altro sono di più) a scegliere di continuare la gravidanza e in nessun caso abbiamo avuto la necessità di attivare un aiuto. Questo vuol dire che i contributi economici non sono importanti? No di certo, anzi anche noi abbiamo erogato negli anni scorsi diversi contributi, mensili od una tantum. Perché in certe situazioni è assolutamente necessario.
Invece queste 135 mamme ci insegnano che se la nostra società vuole iniziare a ridurre in modo significativo i 70.000 aborti di oggi, la prima cosa da fare è creare spazi per accoglierle, ascoltarle, valorizzare il bimbo che vive in loro, offrire vicinanza e sostegni concreti. Ognuno di noi dovrebbe ripetere ad ognuna di loro il messaggio di don Lorenzo Milani: “I care!”: mi interessate, siete importanti per noi, anche se tanti fanno a gara a dire che tu e tuo figlio non valete nulla. Questo porta beneficio all’intera società: “La cura del bambino fin dal concepimento misura il grado di maturità di un popolo e lo risana” diceva il nostro fondatore don Oreste Benzi. La solidarietà con le mamme ed i bambini può aiutarci a costruire una società migliore.