La concorrenza fiscale tra gli Stati non è certamente un male, anzi è parte integrante di un sistema virtuoso che permette a cittadini e imprese di essere sottoposti a regimi fiscali più morigerati e meno costosi; questo, però, non sembra essere la percezione comune in Italia, dove si subisce un’elevata pressione fiscale che sembra non avere eguali al mondo.
In realtà non è così, visto che ogni sistema ha i suoi pro e i suoi contro ma è indubbio che i costi fiscali italiani, diretti e indiretti, siano una delle principali zavorre alla ripresa economica del Paese, ben prima dell’era Covid-19.
Spesso si leggono notizie sull’evasione fiscale e sulle grandi imprese internazionali che riuscirebbero a eludere l’imposizione, questa narrazione ha creato da un lato la percezione errata di un fisco che grava soprattutto sulla categorie reddituali più basse e che non ci siano i presupposti per una riduzione del prelievo e una sua razionalizzazione.
In realtà non è così!
Dal lato delle entrate è possibile verificare, scaricando i dati dal sito del MEF che le entrate tributarie, tra il 2002 e il 2020, siano costantemente aumentate (con l’eccezione del 2009) a un tasso medio del 2,1% annuo con l’inflazione media nel medesimo periodo pari al 1,52% e con un tasso di crescita medio del PIL negativo, ergo nonostante il crollo dei redditi reali e la recessione tecnica che perdura da quasi due decenni le entrate erariali sono cresciute costantemente in termini reali in tutto questo… alla faccia dei “grandi evasori” anche valutando il fatto che il 60% del gettito fiscale proviene dal 13% della popolazione che percepisce i redditi più elevati e che il 44% dei contribuenti a reddito più basso contribuisce solo per il 2,44% complessivo (indicazione che la progressività dell’imposizione indicata in Costituzione, in effetti, funziona).
Se a questa immagine si aggiungesse che, come rilevato dalla CGIA di Mestre, gli sprechi delle PPAA siano, ogni anno, valutabili in un importo quasi doppio rispetto alle somme evase o eluse al fisco risulta palese che la storia dell’evasione come “male endemico” e causa dell’impossibilità di riforma del sistema sia, quantomeno, esagerata e il mantra del “pagare tutti per pagare meno” sia, al più, una filastrocca buona come slogan pubblicitario.
Più di una volta si è detto, infatti, che il grave problema italiano, prima ancora della pressione fiscale troppo elevata, sia la complessità e la non linearità del sistema, fatto di troppi balzelli, che spesso non ripagano neppure il lavoro di riscossione, e troppe scadenze che rendono assai oneroso, in termini di tempo e di costo effettivo, la perfetta compliance fiscale per tutti.
Sull’altro lato l’internazionalizzazione dell’economia e dell’informazione, permette a quasi tutti di confrontarsi con altre realtà che, spesso, sembrano molto più attrattive e “amichevoli” di quella italiana, generando dei veri e propri miti anche verso zone che nulla hanno di migliorativo, da quel lato, rispetto alla penisola.
L’idea della creazione di un sistema fiscale unico in Unione Europea, quindi, potrebbe essere una soluzione ottimale, almeno secondo l’idea dell’equilibrio di second best, che almeno permetterebbe di valutare al meglio i regimi fiscali interni all’Unione.
Sgombriamo il campo da fraintendimenti, per armonizzazione non si deve intendere un regime unico fiscale deciso da Bruxelles ma la creazione di un unico impianto, con basi imponibili comuni e definite, di imposizione come parrebbe essere la direzione indicata dal Business in Europe: Framework for Income Taxation o BEFIT che rappresenterebbe il nuovo quadro di riferimento per la tassazione delle imprese in UE.
Ovviamente per essere veramente efficace, il nuovo impianto dovrebbe partire dalle imprese per poi essere esteso anche alle persone, in quanto un sistema fiscale unitario diventerebbe un plus interno alla costruzione europea permettendo di confrontare realmente e in maniera semplice e intuitiva i regimi esistenti all’interno dei Paesi membri, facilitando di fatto la libera circolazione sia di merci e servizi sia delle persone che potrebbero decidere in maniera più razionale dove trasferirsi all’interno del continente.
Si diceva che, però, non si parlasse di un regime fiscale unico ma, piuttosto, di un impianto nel quale ogni stato dovrebbe calare il proprio progetto fiscale, quindi stesse basi imponibili, stesse tipologie di imposte e stesse scadenze.
Le aliquote no, invece, quelle devono essere libere per permettere, come detto in incipit, una virtuosa concorrenza fiscale tra stati.
Così facendo con la creazione di un Codice Unico della Tassazione, si andrebbero, in ogni caso, a ridurre di molto gli oneri amministrativi, i costi di conformità e permetterà di minimizzare la possibilità di elusione fiscale, cosa che dall’altro lato permetterebbe di stimolare e sostenere al meglio gli investimenti nel mercato unico e, di conseguenza, anche spingere occupazione e ripresa.
Ovvio che un’idea simile non possa che tradursi in un progetto di lungo respiro e che vedrà la luce, almeno come proposta organica, solo nel 2023 ma che si cominci a parlare già da subito dell’ipotesi in campo è assolutamente positivo anche perché sarà così possibile avviare in maniera efficiente il corposo lavoro diplomatico che è alla base dell’elaborazione almeno della proposta iniziale.
Tralasciando, quindi, ogni valutazione politica, benché l’unificazione fiscale (e quella del debito) furono le azioni che crearono di fatto gli USA dopo l’indipendenza, l’iniziativa ha un suo grande valore a livello prettamente economico, non è solo una questione meramente di costi di gestione della materia fiscale, come già si è detto, ma è l’apertura alla trasparenza e alla perfetta confrontabilità dei sistemi fiscali interni all’UE e, da una parte, uno stimolo per una razionalizzazione degli investimenti privati in tutto il territorio continentale che potrebbero essere distribuiti in maniera più efficiente valutando il rapporto prelievo fiscale/servizi restituiti e, dall’altra, una limitazione nell’azione vessatoria degli stati che non riuscirebbero più a nascondere nuovi prelievi per spese improduttive (e, malignamente, da definire elettoralistiche) nei meandri di un fisco prolisso spingendo al contenimento e alla maggiore efficientazione della spesa e, di conseguenza del prelievo, lasciando così più risorse per consumi e investimenti al settore privato.