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Sindrome di down: basta con gli stereotipi ripetuti all’infinito

Ho conosciuto e frequentato tante persone affette dalla sindrome di Down in molti ambienti e occasioni diverse, e, in particolare, nell’ ambito scolastico e per la loro presenza nell’Associazione dove opero. Con loro ho avuto modo di essere vicino a tante famiglie e alla loro storia di prossimità impegnata – sarebbe meglio dire “dedicata” al massimo – in questa sindrome. Penso che la sindrome di down sia, grosso modo, conosciuta dai più, almeno fisicamente, relativamente agli aspetti fondamentali.

Nel passato, fino circa alla prima metà del secolo scorso, la mortalità dei “ragazzi” down in età infantile e giovanile era piuttosto elevata, soprattutto per complicanze dovute a morbilità concomitanti alla sindrome, ma, dopo l’avvento degli antibiotici, e una studiata e migliore conoscenza clinica del caso, tale tasso è sceso drasticamente ed ora anche i “ragazzi” down possono “invecchiare”.

Va precisato però che il loro processo di invecchiamento appare accelerato, l’aspettativa di vita media è di circa 60 anni e alcuni soggetti superano gli 80. Sintomi simili all’Alzheimer, quali demenza, amnesia, peggioramento delle capacità intellettive e alterazioni della personalità possono svilupparsi in giovane età. Le anomalie cardiache sono spesso trattabili con farmaci o intervento chirurgico.

La sindrome, conosciuta anche come “trisomia 21” per la presenza di un cromosoma in più nella coppia 21, è una malattia genetica che non ha possibilità di remissione totale, non esistono cure, ma alcuni sintomi e problemi possono essere positivamente trattati. Qualsiasi coppia del patrimonio genetico può presentare trisomie, ma nel 95% dei casi è la coppia 21 – la più piccola del genoma-, ad essere colpita.

Il nome “down” è dovuto al medico inglese Jhon Haydon Langdon Down che per primo evidenziò i più importanti e frequenti sintomi morfologici, come il deficit intellettivo e gli occhi a mandorla, tipici delle popolazioni orientali della Mongolia – per cui i “ragazzi” down vennero soprannominati “mongoloidi” e la sindrome “mongolismo”, epiteti che portarono – e portano ancora oggi – a una visione riduttiva, inquadrata in una categoria uniforme fatta da individui tutti uguali, privi di personalità propria, mentalmente ritardati, destinati a dipendere tutta la vita dalla famiglia e dalla società, soggetti a infezioni ricorrenti e con speranza di vita molto ridotta. Tutto falso.

Ogni ragazzo down è unico nel suo genere e tutti insieme costituiscono una popolazione dotata di particolarità comportamentali, cognitive, affettive, psicologiche diverse, come possiamo vedere nelle popolazioni “normali”; ci sono intelligenti, impulsivi e remissivi, romantici e materialisti, geniali e prosaici, oratori e silenti, belli e brutti, empatici e indifferenti, gentili e arroganti, dotati di interessi o piatti, aperti a sviluppare potenzialità e altri chiusi agli ambienti e alle persone. Ognuno vale per sé e non si può assolutamente parlare di stereotipie ripetute all’infinito: varietà straordinaria, di ordine clinico, comportamentale, evolutivo.

Gli unici aspetti che hanno in comune fra loro sono soprattutto alcune caratteristiche fisiche che li rendono simili e facilmente riconoscibili subito, fin dalla nascita, come down, oltre agli occhi a mandorla: bocca di misura inferiore e con i denti più piccoli, lingua di volume maggiore, naso e profilo del viso un po’ appiattiti, caratteristiche specifiche del cranio, mani corte e larghe  con una unica piega palmare, con  il dito mignolo flesso spesso con due falangi invece di tre; lo spazio tra l’alluce e il secondo dito del piede può essere ampio; sono spesso di bassa statura; nella base posteriore del collo può essere presente un eccesso di cute – pieghe nucali -; le orecchie sono piccole e arrotondate ed hanno un impianto basso nella testa. Questa è in breve la fotografia fisica di quasi tutti i ragazzi down, e il loro stigma.

Ma non è il loro aspetto e le varie malattie-problemi fisici che ci interessano di più, se non per evidenziare la necessità di un’accurata diagnosi precoce che consenta di prevenire il peggioramento delle condizioni di salute. Relativamente alla diagnosi, specialmente se precoce, informazione ai famigliari sulla presenza della sindrome e sulle possibilità di sviluppo del bambino va prudentemente fatta con rispetto al luogo, ai tempi, ai contenuti: come comunicare la diagnosi influenza molto la famiglia nel suo primo approccio alla situazione.

Ciò che mi preme di più è sottolineare la diversità dei “ragazzi down” sul piano cognitivo, affettivo, comportamentale, il che li rende soggetti singoli con una loro spiccata personalità. La differenza fra i “ragazzi down” e i normodotati non risiede nella sequenza dello sviluppo, che è lo stesso, ma in un rallentamento dello sviluppo motorio, linguistico, comunicativo e cognitivo. È a questi settori che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione socioeducativa.

Come ho detto, ne ho conosciuti e frequentati molti, tutti diversi nell’agire, nel capire, nel fare, nel rapportarsi, nelle abitudini, nei ritmi di vita, ognuno con la sua personalità ben definita dalle sue proprie caratteristiche, dotazioni e limitazione, dal suo ambiente e contesto di vita, dalle attenzioni ricevute, a partire dalla diagnosi precoce o tardiva. Tutto ciò è un punto dirimente; i “ragazzi”down sono una popolazione a sé stante e come noi e sono persone che, con le loro famiglie, hanno diritto a tutto l’aiuto necessario, a tutti i servizi che servono, ai supporti indispensabili, alla insostituibile delicatezza degli interventi.

Soprattutto avrebbero bisogno di un ambiente, inteso in senso lato, maggiormente semplice e alla loro portata cognitiva, mentre il nostro oggi è di una complessità che spesso spinge indietro anche noi, che down non siamo, e che ci perdiamo talvolta in tutta la complessità dell’oggi. Verrebbe da pensare alla chiusura della poesia leopardiana. “e in questa immensità s’annega il pensier mio….”.

Occorre prestare la massima attenzione, fra i tanti aspetti, allo sviluppo cognitivo- affettivo e al contesto ambientale: qui si struttura, anche nei “ragazzi down”, che possono arrivare alle soglie del pensiero formale, una personalità capace e sana. Ma va tenuto in considerazione che lo sviluppo cognitivo- affettivo non è mai completo – ad esempio la capacità d’ astrazione, il linguaggio simbolico, il riconoscimento dell’altro -, è disomogeneo, presenta problemi mnemonici, abbisogna di ripetizioni significative, ci sono difficoltà a utilizzare il contenuto mnestico.

Ma soprattutto i “ragazzi down” hanno bisogno di tempo, e tutti noi, la famiglia, la scuola, i centri riabilitativi e abilitativi, gli operatori, tutti devono saper aspettare, senza pretendere troppo e troppo presto. Quando la pressione socioeducativa- affettiva è troppo forte, quando si impegna troppo il “ragazzo down” in tante attività – erroneamente si pensa che fare molto serva a sviluppare interesse e abilità -, si perde la battaglia. Ho visto diversi “ragazzi down” perdersi nell’autismo, si sono tirati indietro di fronte alla complessità e non li raggiungi più. Si sono spenti. Optano per una solitudine completa e fanno solo ciò che più sono sicuri di saper fare, come sfogliare in continuazione le pagine di un libro senza vederle, far roteare in continuazione un nastro, far girare una palla ripetendo gli stessi gesti e le stesse sequenze con precisione maniacale, fare gesti scomposti, sempre gli stessi. Se ci si pensa bene, sono attività motorie copiate dagli adulti, ma vuoti di senso e di significato.

Non si ripeterà mai abbastanza che occorre saper attendere, non fare fretta, agire con discrezione, capire la complessità di ciò che proponiamo, semplificare, adattare, personalizzare, individuare i punti di forza e di debolezza, essere amabili ed empatici, agire con discrezione sul contesto. Nel contempo ho visto e frequentato “ragazzi down” capaci di eccellere in particolari ambiti: chi è un artista, chi è creativo al massimo e ti sa stupire, chi balla con una capacità e una verve rare, chi disegna i suoi amati fiori e li colora meglio di chiunque altro, chi sa calcolare a mente e non ha bisogno di calcolatrice e se ne vanta, chi salta la corda come un pugile in allenamento, chi suona la chitarra da concertista, chi è una cameriere provetta, chi sogna di diventare chef, chi possiede una spiccata capacità imitativa, chi fa volontariato con i bambini. Tutti in pista con i propri sogni ad amare quel grande dono che è la Vita.

Alda Cattelini: