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Il senso del viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia

Eletto papa, Karol Wojtyla aveva confermato l’Ostpolitik, e monsignor Agostino Casaroli alla sua guida, ma con un cambio di strategia: e cioè, vincolando l’azione diplomatica – e quindi i rapporti con i Paesi comunisti – al rispetto dei diritti umani, in modo da privilegiare il dialogo con i popoli, con le nazioni, anziché con gli Stati. E poi, andato – primo viaggio – in Messico, ch’era ufficialmente anticlericale, il Papa confidava che le autorità comuniste polacche non avrebbero potuto dirgli di no. Ma era Mosca che continuava a mettere i bastoni tra le ruote. Brèžnev era arrivato a proporre una alternativa incredibile. «Dite al Papa – un uomo saggio – che potrebbe dichiarare pubblicamente di non essere in grado di venire a causa di una indisposizione». La proposta era talmente assurda, se non ridicola, che il governo di Varsavia aveva avuto buon gioco nel vincere le resistenze del Cremlino. Anche perché aveva chiesto, e ottenuto dal Vaticano, di spostare la data del viaggio il più lontano possibile dalle celebrazioni del IX centenario del martirio di san Stanislao: ucciso da un re tiranno per difendere il popolo e, perciò, personaggio scomodo – essendo andato contro lo Stato – per la storiografia marxista, e per un regime che si sentiva sul collo il fiato del Grande Fratello.

Era il 2 giugno del 1979, quando Karol Wojtyla arrivò a Varsavia. Il primo Papa che metteva piede in un Paese comunista. La definizione migliore, e passata alla storia, fu quella del cardinale Franz König, arcivescovo di Vienna: un vero e proprio «terremoto». Giovanni Paolo II celebrò la prima messa in piazza della Vittoria, dove di solito si svolgevano le principali manifestazioni del regime. «L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo – disse nell’omelia – è un atto contro l’uomo. Senza di Lui non è possibile capire la storia della Polonia». Parole mai sentite prima, pubblicamente, in un Paese dell’Est. E infatti, dalla folla, scoppiò un applauso che durò più di dieci minuti. Il giorno dopo, altro discorso-bomba a Gniezno. Non solo il Papa fece parlare per la prima volta la “Chiesa del silenzio”, ridando voce alle lingue e ai popoli slavi; ma rilanciò l’unità spirituale dell’Europa sulle comuni radici cristiane. Opponendosi così a quella che ormai tutti, anche in Occidente, ritenevano una situazione definitiva, irreversibile: la divisione del continente.

Infine, la sua Cracovia. La messa nella grandiosa spianata di Błonia, quasi due milioni di persone. C’era lì, visibile, il significato profondo di un viaggio che aveva ridato al popolo polacco, e ai popoli degli altri Paesi dell’Est, la voglia di sentirsi liberi, di essere liberi. Al momento di salire sull’aereo, per far ritorno a Roma, Giovanni Paolo II ne inventò un’altra delle sue, perché stampò due baci sulle gote del sorpresissimo e imbarazzatissimo Henryk Jabłoński, presidente del Consiglio di Stato polacco. Un gesto che faceva seguito alla frase, estremamente significativa, inserita all’ultimo momento nel discorso di poco prima. «Questo evento senza precedenti è indubbiamente un atto di coraggio da ambedue le parti». Ma ancora di più, pensando al futuro. «Bisogna avere il coraggio di camminare nella direzione nella quale nessuno ha camminato finora».

Papa Wojtyla non voleva, e forse neppure si augurava, dei cambiamenti traumatici. In quel momento, forse, pensava ancora possibile una evoluzione del comunismo nella linea della Primavera di Dubček, e cioè di un socialismo dal volto umano, e di un progressivo abbattimento della “cortina di ferro”. E proprio per questo, nel discorso di congedo a Cracovia, volle incoraggiare i governanti polacchi – e, indirettamente, anche gli altri governanti dell’Est – perché prendessero in considerazione quanto di positivo, di costruttivo, era emerso da quel viaggio. Ma i capi comunisti non capirono nulla di quanto stava accadendo, non strinsero quella mano tesa. Mosca, anzi, intensificò la sua “campagna” contro il Papa polacco. Cinque mesi dopo, tutti i componenti la segreteria del Comitato centrale del PCUS (tra i quali anche il futuro leader, Gorbaciov) approvarono un documento dell’ideologo del partito, Michail Suslov, dal titolo ch’era tutto un programma: «Decisione di operare contro le politiche del Vaticano nelle relazioni con gli Stati socialisti». Tra l’altro, si prevedeva l’infiltrazione di spie all’interno della Santa Sede. E in effetti, qualche tempo dopo, una spia (un diacono) venne scoperta in Vaticano e allontanata. Con la conseguente adozione di misure e cautele più severe, specialmente nell’appartamento pontificio. Per contro, si profilava una grave minaccia per l’Urss.

Si respirava un’aria nuova in Polonia, dopo la visita del Papa. Forse perché era finita la paura e la gente aveva rialzato la testa, ma il dissenso si era fatto più spavaldo, e il mondo operaio aveva cominciato a criticare apertamente una ideologia e uno Stato-partito, dai quali non si sentiva più rappresentato. Insomma, si avvertiva una diffusa volontà di ripresa morale e sociale, che inevitabilmente cozzava con un “sistema” ormai prigioniero dei suoi metodi autoritari: la forza, l’intimidazione, gli arresti, le condanne. E si arrivò al 1° luglio del 1980. In seguito a un nuovo aumento dei prezzi, alcuni reparti delle officine Ursus presso Varsavia sospesero il lavoro. Da lì, gli scioperi si allargarono a macchia d’olio, attraversarono l’intero Paese. Ce ne fu uno anche nei cantieri Lenin di Danzica, per il siluramento “politico” di Anna Walentynowicz, una gruista, vent’anni di anzianità, e militante del movimento operaio. A organizzare la protesta fu Lech Wałęsa, un elettricista, che era uno dei membri più attivi del sindacato clandestino. E qui, sul Baltico, la contestazione non solo mise radici, e assunse un carattere permanente, ma si colorò di un aspetto inedito. Straordinariamente inedito.

Sui cancelli dei cantieri apparvero un quadro della Madonna Nera e un ritratto di Karol Wojtyla. Gli operai, in ginocchio sul selciato, si confessavano e prendevano la comunione. Quelle immagini fecero il giro del mondo, impressionarono tutti. «Forse è arrivato il momento!», esclamò Giovanni Paolo II. E, naturalmente, quelle immagini vennero viste anche al Cremlino, spaventarono i gerarchi comunisti, timorosi che il “bubbone” polacco potesse espandersi, contagiare le altre regioni dell’impero. Così, quando si arrivò alla trattativa fra operai e governo, Mosca infuriata mandò a dire alle autorità polacche: «Firmate! Firmate! Ma fatela piantare con queste agitazioni!». Ebbene, sarebbe avvenuto tutto questo, se in quel momento sulla cattedra di Pietro non ci fosse stato un Papa polacco? E dunque, non fu proprio questo grande “ombrello” protettivo, a bloccare quanti avrebbero voluto soffocare la rivoluzione che stava incendiando la Polonia?

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