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Sapersi scusare non è perdonismo. I “mea culpa” della Chiesa

Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede“, diceva Giovanni Paolo II. In altre parole, fare i conti con il passato senza paura. E invece in tanti nel mondo cattolico continuavano a mostrarsi critici nei riguardi di quella novità wojtyliana. Tutta la Sacra Scrittura, e specialmente il Nuovo Testamento, mettono in luce la grandezza e la profondità del perdono di Dio; ma evidentemente era qualcosa che non faceva ancora parte del bagaglio culturale e, prima ancora, della vita di fede, di parecchi ecclesiastici.

Prova ne sia che alcuni episcopati ci metteranno degli anni, prima di uscire da quello che uno storico aveva definito “ossequioso silenzio”, e cioè prima di trovare il coraggio di riconoscere apertamente le loro mancanze, le scandalose compromissioni con i poteri temporali. E tuttavia, con il passare del tempo, i “mea culpa” cominciarono a far breccia nelle perplessità, nelle resistenze. A colpire molti, era il “risvolto” costruttivo delle denunce, pur severe, che il Papa faceva a riguardo delle responsabilità storiche dell’istituzione ecclesiastica. Come dire che, proprio a partire da una revisione autocritica delle vicende del passato, sarebbe stato possibile avviare una profonda trasformazione di vita nella comunità cattolica.

E poi, a colpire, era anche quel perdono a senso unico, senza chiedere assolutamente nulla, senza doversi aspettare niente in cambio. Appunto perché, per Wojtyla, la gratuità del gesto era la condizione indispensabile, assoluta, per la sua credibilità, per la sua efficacia. In concreto, perciò, i “mea culpa” favorirono un cambiamento di clima, di mentalità, rispetto a un passato in cui prevaleva il contrasto, la condanna. Non solo, ma, contribuendo ad appianare molte delle antiche incomprensioni, testimoniarono la volontà di Roma di andare avanti sulla strada dell’ecumenismo, del dialogo con le altre Chiese cristiane, con le altre religioni. Altro che “perdonismo”, come lo chiamavamo alcuni in senso molto dispregiativo!

Per decine e decine di volte, in giro per il mondo, nei Paesi che visitava, Giovanni Paolo II aveva ripetuto, più o meno con le stesse parole, quell’affermazione così forte, così espressiva: “Oggi io, Papa della Chiesa di Roma, a nome di tutti i cattolici chiedo perdono…”. Un impegno solenne, esplicito, a non compiere più in futuro gesti o azioni contrarie alla verità di Dio e alla verità sull’uomo. Ma, di fatto, pur con tutta la sua autorità, era soltanto lui, il Papa, a pronunciarsi pubblicamente, a prendere posizione. Invece, quel 12 marzo del 2000, fu la Chiesa intera per la prima volta a chiedere perdono. A implorare la misericordia di Dio per i peccati e le contro-testimonianze di cui si erano macchiati i cristiani, “deturpando così – erano le parole del Concilio Vaticano II – il volto della Chiesa”. E, dopo il pubblico pentimento, l’impegno a non tradire più il Vangelo.

Un “mai più!” pronunciato con forza per ciascuna delle grandi colpe che venivano ricordate. Era la Giornata del perdono, uno degli eventi più significativi del Giubileo. E, durante il rito nella basilica vaticana, ci fu quel momento che rimase negli occhi e nel ricordo di tutti. Il vecchio Papa era andato ai piedi del grande crocifisso; e, quasi appoggiandosi, lo aveva abbracciato a lungo e baciato. Racconterà il suo segretario, monsignor Stanislao Dziwisz: “Quello che aveva provato se lo tenne dentro, nel suo cuore. Ma se provo a ricordarmi il suo sguardo, era come se dicesse: ‘Bisognava farlo, bisognava farlo…'”.

E poi, un altro dei grandi appuntamenti del Giubileo: la commemorazione – domenica 7 maggio 2000, al Colosseo – dei Testimoni della Fede del XX secolo. Era come rivisitare la storia di un martirio, che ormai attraversava le divisioni tra le Chiese, le frontiere politiche e ideologiche. Alcuni nomi erano noti, famosi, come quello di monsignor Oscar Romero, arcivescovo di Salvador, assassinato mentre celebrava l’Eucarestia, e che il Papa, malgrado le voci contrarie, aveva voluto espressamente inserire nella lista, considerandolo un “grande testimone del Vangelo”. Nomi noti, ma anche tanti martiri rimasti anonimi, scomparsi nel nulla. Cattolici, ma anche ortodossi e protestanti. Preti, ma anche laici, specialmente catechisti. “Quasi i militi ignoti – disse il Papa – della grande causa di Dio”.

Gianfranco Svidercoschi: