Nella lettera “Patris corde”, con la quale ha voluto “condividere alcune riflessioni personali” su San Giuseppe, Papa Francesco cita il romanzo “L’ombra del Padre”, di Jan Dobraczynski. E subito mi viene da pensare agli anni – ormai lontanissimi! – del Seminario, quando la lettura di quel romanzo mi colpì molto e mi fece amare San Giuseppe, e desiderare di diventare un po’ come lui: un’ombra, attraverso la quale qualcuno potesse intra-vedere il volto di Dio…E poi, accanto all’amore per San Giuseppe, maturò in me quello per Giovanni Battista, il dito che indica Gesù: “ecco l’agnello di Dio!”. Essere un dito, essere un’ombra: era il mio sogno negli anni del Seminario!
Ma non voglio parlare di me, e credo che ogni adulto (e, in particolare, ogni padre) dovrebbe imparare da San Giuseppe ad essere soltanto un’ombra (e scusate se è poco!). Mi sembra però che questo oggi accada raramente. Papa Francesco ha avuto il coraggio di parlare di “catastrofe educativa”, evidenziata dalla pandemia, ma già presente in Occidente da molto tempo, e un intellettuale come Ivano Dionigi, già Rettore dell’Università di Bologna, ha scritto di recente che i ragazzi cercano padri e maestri “e non li trovano. Tutti pronti a dire loro cosa devono o non devono fare, ma chi se ne prende cura, chi li ascolta, chi li promuove? E così, di fronte alla nostra indifferenza e al nostro cinismo, fanno parte con loro stessi, in una lenta secessione, interiore ed esteriore”.
Giuseppe no, non era così. Era – ed è! – il contrario dell’indifferenza. E’ il padre giusto, capace di cura e di custodia. Ma nella libertà! Perchè “essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze” (Patris corde, n. 7). Giuseppe è il padre casto, “l’adulto che ci manca” (Armando Matteo titola così un suo bel libro sulla questione educativa). I ragazzi anche oggi cercano adulti così, che accompagnano senza trattenere; che amano i figli, ma senza diventarne dipendenti. Di recente, ho ascoltato Ester, vent’anni! dire così: “Ci vorrebbero adulti appassionati dei giovani, ma prima ancora appassionati di Dio!”. E forse il silenzio che avvolge la vita di Giuseppe e il suo farsi da parte sono proprio il segno del suo amore casto e appassionato: è l’adulto che fa spazio al mistero.
Ma Giuseppe è innanzi tutto sposo, e non solo custode e padre! E il vangelo di Matteo narra la sua sponsalità capace di cambiare il proprio punto di vista, di accogliere le parole dell’angelo e di aprirsi all’impossibile…E poi narra la sua autorevolezza, quando “si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto” (Mt 2,14). Me li immagino sempre insieme, lui e Maria: a Betlemme, quando “per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7); in terra straniera, nel tempo dell’esilio; a Nazaret, nella ferialità della vita…
Ecco, proprio Nazaret mi richiama un ultimo tratto del profilo interiore, ma concretissimo, di Giuseppe. Ha sempre lavorato, e Gesù stesso è detto “il falegname, il figlio di Maria” (Mc 6,3): “da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro” (Patris corde, n. 6). Giuseppe, allora, insegna a noi -in questo tempo così difficile- che il primato di Dio e la fedeltà, anche faticosa, alla vita reale non sono per nulla alternativi, ma sono due aspetti di un unico amore. Lo ha insegnato -immagino senza parole! – perfino a Gesù. Forse, Giuseppe potrebbe essere…il santo patrono del post-covid: potrebbe intercedere perché il lavoro sia finalmente più giusto, tutelato e per tutti, e perché le mani di chi lavora abbiamo il tempo e la forza di aprirsi anche alla preghiera e alla fiducia.