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Il sacramento del matrimonio non è un contratto

Il clamore e lo stupore che hanno fatto eco alle dichiarazioni di Papa Francesco in materia di unioni civili necessitano di un’ecologia delle parole, se non si vuole entrare in una confusa commistione tra sacro e profano. Così come è necessario, accanto al riconoscimento degli affetti, evitare la babele del linguaggio.

Le parole di Papa Francesco si muovono in un terreno che è pieno di fraintendimenti e di interessati equivoci e bene ha fatto il Santo Padre a rimarcare che alla Chiesa compete la cura del sacramento mentre la società è chiamata a dare ad ogni persona il rispetto dei diritti che le sono dovuti.

Infatti, la comunità civile è chiamata a regolare gli effetti del contratto con il quale le persone si legano reciprocamente, in un rapporto che incide sulla loro vita e sulla società nella quale abitano.

Orbene che cosa lega un sacramento a un contratto? Se non ci fosse l’impegno concordatario dello Stato italiano a riconoscere alla celebrazione del sacramento matrimoniale gli effetti civili, nulla li lega.

Nel sacramento il vincolo relazionale deriva dalla determinazione di ciascuno dei coniugi (e di entrambi) di essere fedeli al comandamento evangelico: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Matteo 19).

Nel contratto civile il vincolo nasce e dura in forza della convenienza dei singoli e reciproca: si sostanzia e sussiste nei termini contrattuali di ciò che sta scritto e delle sue possibili modifiche. Nessun “comandamento”. Solo il modo e il tempo dell’affetto e della convenienza.

Se mai c’è stato un tempo in cui le due forme del rapporto sono coincise, non è più questo. Civilmente, la forma contrattuale è addirittura separata dalla natura dei contraenti. Se nel testo evangelico su cui si fonda il sacramento i contraenti sono necessariamente un uomo e una donna, non è così per il codice civile che può prevedere di redigere contratti tra persona e persona qualunque sia la loro sessualità.

Al limite e per evidente paradosso un contratto può perfino essere redatto con tutti gli effetti che possono essere previsti tra un essere umano e il suo amato cane, gatto o cavallo. Delle forme di una simile contrattualistica lo Stato prende atto a misura del costume dominante e prevede la rilevanza sociale che esso assume nel tempo storico. Oggi è possibile lasciare il proprio patrimonio all’amato animale domestico. E nessuno può escludere, in futuro, che, divenisse costume, possa essere chiesta la reversibilità della pensione al proprio micetto.

Papa Francesco ribadendo che per la Chiesa il vincolo ha natura sacramentale invita a evitare questo equivoco. S’impone peraltro una riflessione ulteriore. In regime concordatario il collegamento esistente tra sacramento e contratto sotto l’unico termine di matrimonio finirà per confondere le due sfere?  Se quella civile può essere modifica ad libitum, come mantenere dopo la celebrazione concordataria del rito religioso l’imperativo evangelico? Soprattutto come evitare la confusione terminologica. Che cos’è, tra le navate della chiesa, un matrimonio (Ego coniungo vos in matrimonium)? E cosa è il matrimonio nella formula concordataria letta agli sposi alla fine del rito? Sono lo stesso matrimonio, o due cose diverse? Diverse ovviamente. Per natura e sostanza di Grazia.

Meglio chiamare sacramento l’uno e contratto l’altro, celebrati e redatti nelle rispettive sedi, dove chi entra sa, fin dalla porta d’ingresso, se si sta andando a un impegno evangelico o a concordare i termini della propria convenienza? In altre nazioni come la vicina Francia pur nel riconoscimento e nel rispetto reciproco, vige questa separazione. Su questo e non sul rumore mediatico seguito alle parole del Papa si finirà per riflettere. 

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