Rosario Livatino fu assassinato il 21 settembre del 1990 nelle campagne dell’agrigentino, mentre, come ogni giorno, si recava in tribunale. Trent’anni dopo, il 21 dicembre del 2020, Papa Francesco con un decreto ne riconosce il martirio in odium fidei. Sarà il primo magistrato a essere “beato” nella storia della Chiesa.
Mi colpì molto all’epoca l’estrema facilità con cui fu ucciso perché nonostante le inchieste scottanti che conduceva non gli fu mai concessa una scorta. Con gran dispiacere, devo anche riconoscere che nella memoria di molti italiani la figura di quest’uomo, brutalmente privato della vita a trentotto anni, non sia così presente come potremmo credere. Lo chiamarono “giudice ragazzino”, subito dopo la morte, non senza polemica.
C’era chi all’epoca riteneva i magistrati più giovani inadeguati a ricoprire ruoli così delicati. Ragazzino non lo era affatto, sul versante giudiziario, le indagini da lui condotte e i processi da lui trattati e in particolare quelli comportanti l’applicazione di misure di prevenzione contro pericolosi mafiosi colpirono al cuore i loro interessi criminosi.
Nelle sue indagini inquadrò la mafia nella sua versione imprenditoriale con tutte le relative conseguenze in tema di rapporti con la criminalità economica, finanziaria, politica e amministrativa. Era davvero una persona perbene, senza manie di protagonismo, sosteneva che il magistrato oltre a essere, dovesse anche apparire. Aveva una visione “sacrale” della sua professione che oggi per alcuni aspetti manca alla magistratura.
Ho sempre condiviso il suo pensiero quando affermava che l’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio. Il giudice è tale anche nelle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, consentiti ma rischiosi, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione e il pericolo dell’interferenza.
La sua attività culturale e il suo comportamento esemplare di vita, (caratterizzato da integrità, onestà, non solo morale ma anche intellettuale, riservatezza, ipersensibilità, indipendenza, umanità), la cultura della legalità, intesa nella sua pratica realizzazione, l’efficienza e l’efficacia del servizio giustizia e, quindi la credibilità della magistratura, sono sempre state al centro della sua vita privata e di magistrato. Un esempio da imitare e seguire per tutta la magistratura italiana e ora proprio per la sua credibilità è meritevole della beatificazione. Era un vero uomo di fede al punto da chiudere le annotazioni e i pensieri riportati nel suo taccuino con la sigla “Sub tutela Dei”.