In questo 2022 si è tornati a parlare di inflazione, termine quasi dimenticato negli ultimi dieci anni, con l’impennata dei prezzi spinta dal caro energia e delle materie prime e nonostante l’origine non sia, evidentemente, “monetaria” ma di mercato la Banca centrale europea si è trovata a dover agire, come da statuto, per cercare di frenare il fenomeno.
Negli ultimi mesi, quindi, le politiche espansive introdotte sotto il mandato come governatore di Mario Draghi, per contrastare la crisi finanziaria che si era aperta nel 2011, sono state fortemente rimodulate chiudendo il programma di alleggerimento quantitativo, fatto salvo il cosiddetto “scudo anti-spread”, e iniziando una progressiva e rapida crescita dei tassi di rifinanziamento che sono stati riportati, su due tranche, in territorio positivo, oggi, al 1,25%.
Comparando, l’azione decisa della Fed oltreoceano e quella della Bce, però, è evidente un diverso approccio nel superamento della stagione dei “tassi negativi”: mentre in Usa i tassi della Banca centrale sono arrivati a quota 3%/3,25% e si ipotizza possano andare, entro fine anno, anche oltre il 4%, nonostante i componenti del board che rappresentano i paesi del nord Europa si presentino, storicamente, come “falchi” monetari, l’azione della Bce sembra si stia evolvendo con una certa cautela.
Non è un mistero per nessuno, infatti, che dopo il crollo economico del 2020, dovuto alle misure di contenimento dell’infezione, nel 2021 si è avviata in Europa una ripresa, anche consistente, ma dalle fondamenta piuttosto fragili e quest’anno si stiano pagando a caro prezzo le conseguenze del conflitto in Ucraina soprattutto dal lato del rifornimento di energia, complici anche le scelerate e ideologiche politiche energetiche degli ultimi anni che hanno reso l’Unione fortemente dipendente dalle esportazioni di gas dalla Russia. Tutto questo ha prodotto un’importante frenata sui tassi di crescita attesi per quest’anno in ogni angolo del continente.
In questo scenario, di alta inflazione e di frenata nella ripresa, crescono, ovviamente, i rischi e la vulnerabilità del settore finanziario come indicato anche nell’analisi congiunta delle autorità di vigilanza su banche (EBA), mercati (ESMA) e assicurazioni (EIOPA).
Qualcuno potrebbe, legittimamente, chiedere, ma se i rischi sono per le “banche” perché ci si dovrebbe preoccupare? La risposta è meno scontata di quanto sembri.
Il settore bancario così come quello dei mercati finanziari sono centrali nello sviluppo dell’economia, questo al di là della retorica sulla speculazione come causa di ogni male, poiché fungono da “cinghia di trasmissione” per tutto il sistema, gestendo i pagamenti e gli incassi e permettendo di allocare al meglio le risorse; un aumento dei rischi potrebbe bloccare il meccanismo portando a una stretta sul credito che bloccherebbe il rifinanziamento delle aziende e gli investimenti spingendo lo scenario da “minor crescita” a “crescita zero” o, addirittura, a “decrescita” o recessione.
Inoltre va considerato quali siano i “rischi” per il settore bancario. Dopo due anni di pandemia e una strategia di contenimento dell’infezione basata su chiusure di attività e riduzione degli spostamenti delle persone, per ridurre le occasioni di contagio si è assistito a un crollo verticale della produttività e della redditività delle aziende nel corso del 2020 che ha spinto queste a dipendere fortemente dal credito bancario, una stretta eccessiva dei tassi, unita al forte rialzo delle bollette energetiche, potrebbe spingere diverse aziende all’insolvenza e finanche alla chiusura innescando una crisi del debito privato che andrebbe a colpire gli attivi delle banche generando un nuovo deterioramento degli stessi con un aumento delle NPE costringendo a nuovi accantonamenti di sicurezza, riduzione della redditività fino, addirittura, alla necessità di ricapitalizzazioni per mettere in sicurezza il capitale.
La cautela, mostrata, però, non è condivisa da tutti come si legge nelle parole di Philip Lane, capo economista della Bce, secondo il quale sono già programmati nuovi rialzi per comprimere la domanda e non esclude una “lieve” recessione ma, a voler ben vedere, non sarebbe semplice attuare un trattamento come quello che ebbe la “sua” Irlanda quando giunse sull’orlo del default anni fa proprio per via della crisi del settore creditizio.
La domanda in Europa, infatti, è già in calo, come si vede anche dal mercato dell’automobile nel primo semestre che segna un -11% e già prima della crisi energetica la domanda generale segnava una contrazione pure negli acquisti natalizi dello scorso anno.
Le previsioni economiche per la seconda metà dell’anno e per il 2023 erano già peggiorate sensibilmente nel corso dello scorso semestre, tanto che durante il forum di Davos il vice cancelliere e ministro dell’economia tedesco Robert Habeck ha dichiarato “In Europa e negli Usa cresce l’inflazione, c’è una crisi energetica, alimentare e climatica” e “se nessuno di questi problemi è risolto temo veramente che vi sarà una recessione mondiale con effetti tragici per la stabilità mondiale”.
Continuando con la stretta monetaria, seguendo una sorta di Volcker Shock europeo, si rischia seriamente di togliere risorse sia alle famiglie, per fronteggiare il rincaro dei prezzi, sia al settore imprenditoriale, bloccando gli investimenti e mettendo addirittura in discussione la continuità aziendale, senza riuscire a bloccare la crescita dei prezzi che, come già si è detto, deriva non da un aumento della domanda interna ma da una situazione contingente di mercato su materie prime e fonti energetiche.
L’unico auspicio, a questo punto, è che la Bce si muova con un certo buon senso, come del resto ha fatto fin ora, normalizzando sì la politica monetaria ma senza seguire pedissequamente gli Usa per evitare che alla crisi energetica segua anche una crisi di liquidità che potrebbe portare lo stato di alta inflazione odierno a uno di stagflazione (alta inflazione e alta disoccupazione) e di crisi sistemica che sarebbe ben più doloroso superare.