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Il rammarico per quella mancata richiesta di perdono

Dopo l’attentato, Giovanni Paolo II decise di scrivere all’uomo che aveva tentato di ucciderlo. “Caro fratello, come potremo presentarci al cospetto di Dio se qui, sulla terra, non ci perdoniamo a vicenda?”. Ma quella lettera non venne inviata. I massimi collaboratori del Papa gli fecero osservare ch’era meglio di no, perché c’era il rischio, molto probabile, che Alì Agca l’avrebbe strumentalizzata. Ma Wojtyla voleva vedere in faccia il suo attentatore, capire, compiere un gesto di perdono… Così, decise di andare a trovarlo, il 27 dicembre del 1983, nel carcere di Rebibbia. Andò incontro ad Alì Agca, gli strinse la mano, la mano che aveva impugnato la pistola per ucciderlo, e quell’uomo – furono le sue prime parole – gli chiese: “Perché lei non è morto? Io so di aver mirato come dovevo. So che il proiettile era devastante e mortale. Perché allora lei non è morto?”. Poi, si interessò solo per capire chi fosse la “Signora di Fatima”, come avesse fatto a salvarlo. Ma non disse una sola parola per chiedere perdono. Non lo fece allora. Non l’ha mai fatto! Ebbene, so per certo che Giovanni Paolo II s’è portato sempre dentro, fino alla morte, il rammarico – spirituale e umano – di quella mancata richiesta di perdono.

Era mercoledì, c’era l’udienza generale. Giovanni Paolo II sulla papamobile stava facendo il giro della piazza per salutare i fedeli. Aveva appena preso in braccio una bambina bionda, l’aveva alzata in alto come per farla vedere a tutti, e l’aveva restituita ai genitori. Proprio in quel momento, ma coperto dal rumore della gente, ci fu il primo colpo, poi il secondo, e il Papa cominciò a piegarsi con una smorfia di dolore, fino a scivolare tra le braccia del suo segretario, mons. Dziwisz. La jeep partì a grande velocità verso i servizi sanitari all’interno del Vaticano, quindi al Gemelli. La situazione era decisamente grave. Wojtyla era in pericolo di vita, al punto che gli venne amministrata l’unzione degli infermi. Ma, benché lunghissimo e complicatissimo, l’intervento chirurgico riuscì perfettamente. Però non era ancora finita. Ci fu un seguito ugualmente drammatico, a causa di una infezione diagnosticata a fatica, per cui si rese necessario un secondo intervento. E poi, finalmente, Giovanni Paolo II poté fare ritorno a casa.

In quei giorni, in ospedale, aveva più volte riflettuto su quella singolare coincidenza, fra il 13 maggio dell’attentato e il 13 maggio del 1917, quando c’era stata la prima apparizione della Vergine a Fatima; e finì per convincersi che fosse stata la Madonna a salvarlo. E ne concluse: «Una mano ha sparato e un’altra mano ha guidato la pallottola». Per questo, volle che quella pallottola fosse incastonata nella corona della statua della Vergine a Fatima. E, quella «mano che ha sparato», il Papa due anni dopo ebbe il coraggio di stringerla, quando andò a trovare a Rebibbia il suo attentatore, Mehmet Ali Ağca. Un turco, appartenente a un gruppo criminale, i “Lupi grigi”, e lui stesso autore di alcuni delitti, arrestato, incarcerato, e misteriosamente (o non tanto) liberato.

Dopo aver sparato al Papa, aveva tentato di fuggire, ma era stato bloccato prima da una suora e poi dalla polizia. Un killer professionista, senza dubbio. Ma mandato da chi? Cadute, l’una dopo l’altra, le ipotesi di una “pista bulgara” e di una “pista islamica”, restava inevitabilmente il sospetto che l’ordine di uccidere fosse venuto, se non proprio dal Cremlino, quantomeno dal KGB o da schegge impazzite dei servizi segreti. C’era da tener conto dello scenario di quel tempo. L’elezione di un Papa polacco che aveva provocato enorme sconcerto tra i capi comunisti. Il suo primo ritorno in patria che aveva creato una atmosfera di libertà in tutto l’Est. La nascita di Solidarność, che rappresentava ogni giorno di più una insopportabile provocazione per il “sistema”. E ancora, il fatto che stesse morendo il cardinale Wyszyński, primate di Polonia, e fiero avversario del regime. Allora, messi insieme tutti questi elementi, non si finisce sempre per tornare allo stesso punto di partenza? Non si finisce sempre per risalire a Mosca e dintorni, per capire chi volesse far fuori Karol Wojtyla, in quanto “grande protettore” di Solidarność dal Vaticano?

Oltretutto, quando il Papa andò a trovarlo in carcere, sperando invano che chiedesse perdono, Ali Ağca lo accolse con quella domanda che – senza che lui se ne rendesse conto – era estremamente rivelatrice: «Ma perché lei non è morto? Io so di aver mirato come dovevo…». Perché doveva? C’era qualcuno, evidentemente, che gli aveva “commissionato” quell’assassinio; e lui aveva tirato fuori la sua Browning calibro 9, per eseguire l’“incarico” per il quale era  stato profumatamente pagato.

Gianfranco Svidercoschi: