Karol Wojtyla era un mistico, nel vero senso della parola. Un uomo di fede, di preghiera, che sapeva immergersi completamente, totalmente, in Dio. Aveva infatti un rapporto con l’Invisibile che era incredibile. Bastava vederlo pregare: quand’era raccolto in preghiera, mostrava un completo distacco dal mondo. Pregava dappertutto, non solo nella sua cappella privata, ma in qualsiasi posto si trovasse, anche durante in viaggi, in elicottero, in uno sgabuzzino, facendo la Via Crucis nel corridoio di una nunziatura. Preparava gli incontri pregando. “Devo parlare tra poco per telefono con il Presidente americano”, e lasciava la tavola e gli ospiti per andare a pregare in cappella.
Ma, nella sua vita spirituale, non c’era niente di convenzionale, di abitudinario. Non c’era niente di bigotto, anche nel modo rigoroso in cui rispettava digiuni e astinenze. Dunque, un uomo straordinariamente mistico, ma non per questo estraneo ai problemi degli uomini, del mondo. E cioè, aveva saputo realizzare in sé stesso una perfetta sintesi tra vita contemplativa e vita attiva, tra preghiera e azione. E, appunto da lì, dal suo essere in costante intimità con Dio partiva ogni sua decisione, ogni sua iniziativa. Si chiedeva sempre, e chiedeva ai suoi collaboratori: “Che cosa farebbe Gesù in questa circostanza?”, e “Il Vangelo, che risposta ci sarebbe qui il Vangelo?”.
Lo ricordo a Gorée, proprio nel punto dell’isola da cui partivano gli schiavi neri, ammassati nelle navi, per essere portato nel Nuovo Mondo. Era lì, in piedi, braccia incrociate, in preghiera. Guardava quel mare, immaginava il martirio di migliaia di uomini e di donne e di bambini strappati dalle loro torri, e cominciò a piangere. Pregava e piangeva. Ma poi, da quella drammatica esperienza, venne fuori uno dei suoi più appassionati appelli in favore dell’Africa, del Terzo Mondo. Come i profeti nell’Antico Testamento, Wojtyla aveva una straordinaria capacità di interpretare i segni della presenza di Dio nella storia. E, come gli antichi profeti, sentiva come suo compito fondamentale quello di proclamare la verità di Dio, invocandone l’intervento sulla crudeltà degli uomini.
Come fece in Sicilia, ad Agrigento, nella Valle dei Templi, quando se ne uscì con quella tremenda invettiva nei confronti della mafia. Era stato attore. Aveva avuto dimestichezza con grandi raduni, specialmente di giovani. Conosceva diverse lingue, per cui sapeva parlare a braccio, improvvisando anche in altri idiomi. Non poteva non essere un “grande comunicatore”, un Papa così, che cominciò subito ad usare l’”io” invece del pluralis maiestatis, e che volle fin da subito impostare il suo pontificato su una prospettiva missionaria, quindi sul portare l’annuncio del Vangelo in tutti i continenti. Per questo, senza alcuna difficoltà accettò leggi e regole del sistema mediatico; dopo ogni viaggio, andava nella cabina dov’erano i giornalisti e rispondeva a tutte le domande. Ma, detto questo, va anche sottolineato come Giovanni Paolo II non si sia mai fatto condizionare dai media, non abbia mai attenuato il messaggio che voleva annunciare per timore di venir strumentalizzato, manipolato. Insomma, pur facendo continuamente ricorso ai media, non ne è rimasto mai prigioniero.
Ricordo in particolare un episodio molto emblematico. Un anno dopo l’attentato, papa Wojtyla si recò a Fatima per ringraziarla di averlo salvato dalle micidiali pallottole di Ali Agca, una delle quali aveva voluto che venisse incastonato nel diadema della Madonna. Arrivato lì davanti alla statua, rimase in preghiera, quindi in silenzio, per almeno venti minuti. Voleva pregare! Voleva dire alla Vergine tutto quello che provava nel cuore! E così, per tutti quei venti minuti, le telecamere di tutte le maggiori televisioni del mondo dovettero riprendere nient’altro che quel “silenzio”, nient’altro che quella scena senza movimento, quell’uomo vestito di bianco, inginocchiato, completamente assorto nella sua preghiera. Il Papa non aveva imposto nulla, obbligato nessuno. In quel momento, aveva fatto solo ciò che si sentiva spiritualmente di fare: pregare.
Ma vorrei ricordare un altro episodio. Giovanni Paolo II andò in Francia per la prima volta nella primavera del 1980. Imperava allora un esasperato laicismo, e “Charlie Hebdo” uscì con questo titolo: “Arrestato a Parigi il più grosso spacciatore di oppio dei popoli”. Alla fine del viaggio, Eugène Ionesco, che pure non aveva grandi simpatie cattoliche, scrisse: “Da lungo tempo nessuno parlava di Dio o di amore; si pensava, al contrario, che ciò avrebbe fatto sogghignare la gente. Ma questa volta la folla è venuta ad ascoltare e non ha riso. Io credo che molti di coloro che sono andati ad ascoltare il Papa hanno per la prima volta udito un uomo che si indirizzava a loro parlando di fede e non di politica. Dalla fede scaturiscono la buona politica, la vera giustizia, la quale, prima di essere giustizia, è carità…”.