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Perché un addio non è mai per sempre

Sono stato al funerale del padre di un amico; non conoscevo di persona l’anziano ed autorevole magistrato ma ho avuto modo di conoscere da un po’ il figlio.

In una chiesa piena ma non affollata, come le attuali disposizioni organizzative pretendono, un sacerdote acuto ha richiamato il figlio a raccogliere la sapiente eredità del padre, che ha saputo conciliare il rispetto per le istituzioni cui ha appartenuto con la necessità di crescere il figlio, ahimè da solo, per la prematura scomparsa della madre quando il mio amico, oggi maturo avvocato e professore universitario, era ancora giovane studente.

Il sacerdote – forte della Parola odierna – ha posto l’accento sulla risurrezione vivente nella vita in Cristo poiché chiunque vive e crede in me non morirà in eterno (Gv. 11, 26) ed ha ricordato che Peppone è stato un fedele cristiano, motivo per il quale la sua morte terrena, come quella di ogni umano che ritorna alla polvere da cui fu tratto, non coincide con la fine della sua forza vivente, per cui il senso dell’esortazione al figlio di continuare il cammino paterno.

Nel suo breve intervento di saluto finale all’anziano genitore giacente il figlio ha sottolineato il continuo e costante confronto che ha caratterizzato il loro rapporto, purtroppo monco dalla mediazione femminile, ma solerte e vivace pur nella sua rudezza.

Questo singolare spaccato di vita induce a riflettere sul rapporto familiare e sul senso della vita, il primo quale stimolo ed aiuto alla crescita insieme poiché insegnare ed imparare sono due facce della stessa medaglia e c’è sempre un po’ dell’uno nell’altro, come in ogni rapporto tra due entità che, ancorché di massa diversa, si condizionano reciprocamente secondo una legge fondamentale dell’universo, e la seconda che va necessariamente vista e vissuta come un percorso da compiere tra i due punti inesorabili di partenza e di arrivo affinché sia data testimonianza del passaggio, avanzando verso una meta che nessuno ancora conosce ma che esiste almeno lì dove vogliamo porla.

È fin troppo evidente che il mondo, per come oggettivamente ci appare, non termina con la fine individuale di ciascuno ed allora porsi la domanda di come sopravvivere al termine della esistenza equivale a valorizzare il ricordo di sé ma questo ricordo può vivere così soltanto nelle persone che ci hanno amato. Ecco il senso della vita cristiana proposta nel quarto vangelo, in cui l’attesa inerte si trasforma in cammino solerte ed operoso per fornire a chi c’è e ci sarà anche dopo di noi un contributo della nostra esistenza.

Ecco lo sguardo rivolto al prossimo, all’altro, che ricevendo saprà dare, trasmettendo gli insegnamenti ricevuti, filtrati dal proprio tessuto, produrrà nuova linfa, e ricordando farà continuare a vivere. Anche per i beni materiali vale lo stesso criterio: essi sopravviveranno a chi li ha prodotti ed andranno a beneficio di chi abbiamo amato generando gratitudine nel ricordo, nella misura in cui saranno espressione dell’amore riposto.

Non aveva tanti parenti l’anziano presidente, un unico figlio con la nuora e la giovanissima nipote; da tempo aveva lasciato la vita lavorativa ed i contatti istituzionali; eppure la chiesa era piena dei suoi amici e degli amici del figlio, segno del valore che entrambi avevano dato a questo sentimento spontaneo e fraterno, ricordato con affetto nelle parole dette, così accomunandoli nella strada percorsa e testimoniando che già in vita il figlio raccoglieva l’eredità paterna condividendo l’insegnamento ricevuto.

Se la soglia ci accomuna tutti senza distinzioni allora la differenza può stare soltanto nel modo di compiere il tragitto, curando di tenere accesa la piccola ma eterna fiamma dell’amore cristiano.

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