Opinione

Perché Gesù sceglie di recarsi nel suo villaggio natale

Oggi troviamo Gesù a Nazareth. Mesi prima, i suoi familiari, preoccupati con quanto si diceva in giro su di lui, erano scesi a Cafarnao, dove Gesù aveva stabilito la sua nuova dimora, con l’intento (frustrato) di riportarlo a casa. Adesso è Gesù stesso che prende l’iniziativa di recarsi al suo villaggio natale. Si tratta di una cinquantina di chilometri e una salita di settecento metri, per cui non era una piccola passeggiata. Perché lo fa? Possiamo pensare a delle motivazioni molto umane, come il rivedere i suoi, stare con gli amici, trascorrere qualche giorno di riposo negli ambienti in cui era cresciuto… Ma ci saranno stati anche altri motivi più profondi, come il presentare la sua nuova famiglia, cioè i Dodici, e annunciare la buona novella del Regno anche nel suo villaggio. Possiamo immaginare che l’accoglienza sia stata amichevole e perfino entusiasta. Gesù era uno di loro, certamente ben voluto da tutti. La situazione, tuttavia, cambia radicalmente il giorno di sabato, quando tutti si sono ritrovati nell’umile sinagoga di Nazareth.

Andiamo anche noi a Nazareth, non da passivi spettatori, ma cercando di confrontarci con i protagonisti presenti nel racconto. Pensiamo particolarmente ai tre gruppi lì presenti: gli abitanti di Nazareth, i dodici discepoli che accompagnavano Gesù e il gruppetto dei famigliari più stretti, con Maria, la madre di Gesù, in testa.

Dallo stupore allo scandalo

Gesù aveva frequentato quella sinagoga per trent’anni, ma questa volta si respirava un’aria di aspettativa particolare. La sua fama ormai si era sparsa per tutta Galilea e nel suo paese tutti si domandavano cosa stesse succedendo, perché loro conoscevano bene Gesù e non riuscivano a spiegarsi quanto si diceva su di lui. Sapevano che non aveva studiato, non era un rabbino: come mai si presentava con un seguito di dodici discepoli?! Aveva le mani callose da falegname: come mai adesso quelle mani le imponeva sui malati e li guariva?! Era uno di loro, di umile condizione, da un villaggio sperduto che non prometteva niente di buono: come mai era diventato famoso e il suo nome correva di bocca in bocca?! Lo conoscevano bene, ma non lo riconoscevano affatto nelle vesti del “profeta di Nazareth”!

Si mise a insegnare nella sinagoga”. Come era sua abitudine, precisa l’evangelista Luca, che colloca questo episodio all’inizio della predicazione di Gesù, come suo discorso programmatico (Luca 4,16-30). Luca dice nel suo racconto che “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (v. 20) e che, alle sue prime battute, tutti “erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (v. 22). L’esordio, quindi, sembrava presagire una buona accoglienza, come succedeva un po’ dappertutto. Però, Marco e Matteo (13,54-58) si esprimono in un modo più circospetto, dicendo che la gente “rimaneva stupita”. Infatti, i suoi concittadini rimangono più perplessi che meravigliati. Nel mormorio dell’assemblea emergono (tre) commenti di dubbio e diffidenza sulla provenienza delle sue parole, della sua sapienza e dei suoi prodigi. Susseguono (quattro) domande retoriche e sprezzanti sulla sua identità, riguardo alla professione, la madre, i fratelli e le sorelle. “Chi pretende di essere costui?”, si dicono tra loro. E dallo stupore passano allo scandalo: “Ed era per loro motivo di scandalo”, cioè d’inciampo!

Siamo davanti a un groviglio di sentimenti non facile da districare, un misto di meraviglia e ammirazione, di gelosia e invidia, di dubbio e sospetto, di contrarietà e opposizione, diventando perfino sdegno e rigetto. Come spiegare questo mutamento drastico? Se abbiamo il coraggio di scavare nel nostro cuore, lo possiamo capire. I conterranei di Gesù sono lo specchio che riflette tanti nostri comportamenti. Quante volte anche noi abbiamo chiuso la mente e il cuore ad una verità che ci scomodava, elaborando tutta una catena di ragionamenti? Quante volte anche noi ci siamo avvalsi di giudizi e pregiudizi per neutralizzare un messaggio di novità che ci infastidiva? Quante volte anche noi abbiamo pensato: “ma guarda da che pulpito viene questo!”? Quanti di noi accolgono volentieri una “voce profetica” che ci questiona e mette in crisi? I profeti li accogliamo meglio da morti!

Lo sconcerto e lo sgomento del discepolo

Cosa avrà esperimentato il gruppo dei Dodici? Il testo non lo dice, ma si può immaginare. Anche loro avevano delle aspettative su Gesù. Andavano fieri del loro Maestro e si aspettavano di assistere ad un altro suo successo. Quindi, sono rimasti sconcertati al vedere la piega presa dagli eventi. Giacomo di Alfeo e Giuda Taddeo, due cugini di Gesù e che conoscevano bene il campanilismo dei loro compaesani, avranno deplorato dentro di loro che Gesù abbia citato quel proverbio popolare “nessuno è profeta nella sua patria”. Gli altri dieci saranno rimasti sconcertati da questo primo insuccesso di Gesù, proprio a casa sua. Una sconfitta che certo non si attendevano. Anche loro avranno pensato che Gesù avrebbe dovuto essere più cauto, meno schietto e più accondiscendente. Così, i discepoli scoprono che la missione di Gesù – e la loro missione – non sarebbe tutta rose e fiori. E chissà se avranno pensato alla profezia di Ezechiele della prima lettura di oggi (2,2-5): “Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito”. Ci viene da pensare certe volte che il profeta è un messaggero inviato allo sbaraglio.

Anche noi sicuramente condividiamo il parere degli apostoli. Davanti all’opposizione e rifiuto del nostro mondo, ci domandiamo se la Chiesa non dovrebbe essere più accondiscendente su certe cose; se non dovrebbe abbassare lo standard delle sue proposte; se non dovrebbe aggiornarsi, adattandosi alla sensibilità dei tempi. Nel nostro compito apostolico, non siamo anche noi tentati di adeguarci al “politicamente corretto”?

Una spina nel cuore

Cosa sarà successo nel cuore di Maria, la madre di Gesù? Di sicuro che una nebbia di dolore e di tristezza l’avrà avvolto. Forse le è venuta in mente la profezia di Simeone: “Una spada ti trafiggerà l’anima.” (Luca 2,35). Il ricordo di quel sabato si sarà infilato nel suo cuore come una spina.

Quella spina trafigge tuttora il cuore della Chiesa, che soffre per i suoi figli perseguitati, per gli scandali che appannano la sua testimonianza, per l’allontanamento di tanti suoi figli e figlie, per la chiusura crescente al messaggio evangelico…

Questa spina è infilzata anche nel nostro cuore. La nostra debolezza è per noi motivo di tristezza, di sofferenza, d’intralcio e di scandalo. Come Paolo, anche noi abbiamo chiesto al Signore di liberarci da questa spina, e lui ci ha risposto: “Vi basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.” (vedi seconda lettura, 2Corinzi 12,7-10).

padre Manuel João Pereira Correia

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