È il vizio dell’ingordigia, della mancanza di sazietà, del senso della misura, della insoddisfazione per quello che si ha; chi ne è affetto non ha pace, non riposa sereno, non ha il gusto dell’appagamento.
L’ingordo ingurgita, non riesce a gustare, trangugia, non riesce ad assaporare, divora, non riesce a godere; quando smette è solo perché ha raggiunto il temporaneo limite della capienza, ma è pronto a ricominciare appena le forze glielo consentono. Briga con qualunque mezzo per ottenere quello che apparentemente gli dà soddisfazione ma non si accontenta, non gode; sembra assalito da un demone insaziabile che lo spinge ad abusare sempre di più di ciò che può consumare: cibo, fumo, alcol, o qualunque bene possa immettere nel corpo del quale è profondamente schiavo.
Ne è una variante il vizio del gioco, poiché anche in questo caso il problema è il senso della misura, che l’ingordo travalica senza indugio alcuno, senza riflettere, insensibile agli stimoli etici e razionali, pervaso da un compulsivo bisogno di appagamento che non arriva perché non è lì il problema ma nella sua incapacità di saziarsi.
Incomincio ad accorgermi d’esser stato un somaro, intuisce Falstaff al colmo della burla in cui la sua indole viziosa lo ha trascinato; ma l’ingordo, anche consapevolmente, non cessa di ingozzarsi e quasi si propone all’attenzione degli astanti crogiolandosi nella sua ostentata pinguedine, come modello di vita vissuta.
Il goloso si lascia tentare perché aborrisce la parsimonia, osa contro la prudenza, incurante delle conseguenze nefaste su di sé e sull’immagine che offre, pecca consapevolmente e volontariamente e si crogiola nel peccato di gola perché ha una visione istantanea ed immanente della vita rifuggendo ogni senso etico e spirituale della propria esistenza e limitandola al gusto materiale da cui si lascia irretire. Il goloso, contrariamente a quello che appare, non è stimolato dalla curiosità di conoscere, non è affascinato dal sentimento né è incline alla scoperta, è insensibile alle emozioni della mente, del cuore e dell’anima, vive solo per cibarsi smodatamente, come se la vita fosse solo adesso.
Eppure non di solo pane vivrà l’uomo (Lc. 4,4); mettiti un coltello alla gola se hai molto appetito. Non bramare le sue ghiottonerie perché sono un cibo fallace (Pr. 23, 2-3): se il libro sapienziale mette in guardia contro i pericoli dell’eccesso il Vangelo scioglie il dubbio e chiarisce che il senso della vita non è, non può essere, non deve essere limitato alla soddisfazione del gusto ma va oltre, d’intorno e davanti, sopra e non solo sotto, e la mente deve essere libera e sgombra, lucida ed attenta, sveglia e perspicace per coglierne anche il sussurro della brezza leggera in cui ama nascondersi Dio (1Re 19,12) giacché l’eccesso in cui vive il goloso ottenebra ogni senso, finanche quello del gusto poiché gustare è assaporare, sentire e riflettere, immaginare e godere e tutto questo non si accorda con l’eccesso ma con la misura, innanzi tutto di sé, degli altri, e dei valori fondamentali di un’esistenza felice e serena.
Quale difesa contro il vizio di gola? la consapevolezza, non tanto delle conseguenze cui il goloso oppone il suo disinteresse, ma della inutilità del peccato di gola, anzi della sua azione opposta alla soddisfazione del gusto; il goloso deve capire che non gusta, che riempirsi non soddisfa il suo bisogno anzi, lo aggrava, che moderarsi è la chiave più efficace per dare spazio alla comprensione, che ci si sazia con poco, che gode solo chi si accontenta perché c’è tanta soddisfazione nella misura delle cose, che c’è tanto altro da vedere e gustare.
Verdi, anzi Boito, conclude la commedia con il monito ma ride ben chi ride la risata final, dando la misura dell’eccesso.