Norma e Turandot allo Sferisterio di Macerata e il ruolo della donna

Foto di WikimediaImages da Pixabay

Quest’anno il tradizionale appuntamento annuale con il Macerata Opera Festival, inaugurato allo Sferisterio il 19 luglio, ha esordito con Turandot, seguita, la sera successiva, da Norma: due opere liriche femminili distanti quasi cento anni, l’una pubblicata incompiuta dopo la morte di Puccini, di cui quest’anno ricorre il centenario, l’altra, pubblicata nel 1831, quattro anni prima della prematura scomparsa di Bellini a soli trentaquattro anni.

Due epoche diverse: Bellini, nel fervore del romanticismo affida al suo consueto librettista Felice Romani una tragedia dedicata all’infanticidio conseguente alla scoperta del tradimento dell’amante e della sua intenzione di abbandonarla; Medea non regge al mito romantico e l’epilogo viene mutato nel sacrificio della madre, incapace di uccidere i figli innocenti, che si avvia al rogo consapevole di aver tradito il suo ruolo di sacerdotessa dei Druidi, seguita dallo sventurato amante, condottiero dei Romani, che ne riconosce al fine la grandezza morale.

Puccini sceglie una fiaba orientale per disegnare la sua femme fatale, eroina simbolo della vendetta femminea contro i soprusi della violenza maschile, che rinnova il suo odio in memoria dell’ava che ne fu vittima, impenetrabile nel suo gelido abito anche dinanzi al sacrificio d’amore di Liù. Puccini si fermò qui, chissà quanto memore della domestica suicida per l’ingiusta accusa di esserne l’amante, per raccogliere le idee sull’epilogo dell’opera. Non ne ebbe il tempo, stroncato dai postumi operatori del tumore alla gola che lo aveva afflitto.

Più d’uno ha provato a scrivere il finale dell’opera ma da tempo, in ricordo della scelta di Toscanini che volle terminare la rappresentazione dell’opera incompiuta, il finale postumo non viene eseguito, lasciando nel mistero se Turandot giunga al disgelo per amore del principe che aveva sciolto gli enigmi.

Nessuna delle opere di Puccini ha un lieto fine, tranne Minnie che riesce a sottrarre il bandito alla giustizia dei minatori ne “La fanciulla del West”, anche se il tragico resta per intero nella loro condizione di sconfitti. Gli appunti di Puccini sembrerebbero andare nella direzione del disgelo che dovrebbe irrompere nel “duetto finale” per il “travaso d’amore” come “un bolide luminoso” ma l’incertezza sulle intenzioni resta in dubbio per l’accenno a Tristano, che certo non brilla di gioia. Non lo sapremo mai.

Meglio cogliere gli spunti dal raffronto delle due opere interamente dedicate a donne, anche nelle comprimarie: Adalgisa e Liù incarnano l’amore remissivo, ancora attuale, tra innocenza e dedizione, mentre Norma e Turandot sono battagliere e passionali nei ruoli di comando; l’una tempestosa fino al punto di pensare di uccidere i figli e l’altra che attua in concreto la sua vendetta sui pretendenti.

Nessuna è esempio da imitare ma tutte inducono a riflettere sul ruolo della donna e principalmente sulla condizione di facile vittima dell’arroganza maschile. Oggi una Norma non esiste più, non perché non vi sia chi sbagli clamorosamente contravvenendo agli impegni ed alla propria condizione ma perché ben altra sarebbe la sortita finale alla luce della crisi valoriale che ci accompagna. Non credo esista ancora Turandot, chiusa nel suo odio furente non di un vissuto ma di un racconto tramandato che non sopisce, alimentato dal gusto della cruda vendetta dietro la quale non può che nascondersi una incapacità di riscrivere il vissuto con l’abbandono del male, piuttosto che la sua rivivificazione. Ad entrambe le eroine proposte manca stabilità e serenità, manca l’amore duraturo, vittime ciascuna delle proprie passioni e della fugacità dei momenti.

Lasciano spazio al dramma, romantico o verista, ma pur sempre tragico e tragicamente risolto, quasi a monito della importanza della retta via, quella che assicura stabilità, serenità, continuità ed amore, che garantisce prosecuzione e cammino verso la meta promessa, iscritta in ciascuno di noi, l’unica che può condurre al lieto fine.