Il tasso di povertà in Italia, purtroppo, peggiora anno dopo anno. I dati dell’ISTAT ci restituiscono l’immagine di un paese in cui ci sono quasi sei milioni di persone sotto la soglia della povertà assoluta e oltre due milioni di famiglie in difficoltà. Questo dato, messo a confronto con quello di 15 anni fa, ci dice che, nel lasso di tempo indicato, il tasso di povertà assoluta è raddoppiato. Il fenomeno non è più straordinario ma, al contrario, è diventato strutturale. La lettera delle cifre ci indica alcuni fenomeni importanti: la prima è un’assenza di politiche strutturali di contrasto alla povertà, nonostante il fatto che, negli ultimi dieci anni, sono state varate misure importanti come il Rei che, nel 2018, ha introdotto la prima misura diretta di contrasto alla povertà avente una matrice universalistica. Oggi invece lo si fa in maniera categoriale perché, nell’ultima legge che ha modificato il Reddito di Cittadinanza, la misura ha perso la propria natura originaria. Questo è un problema che Alleanza contro la Povertà ha denunciato più volte nel corso degli ultimi mesi. Negli ultimi dieci anni, ad esempio, si sono succeduti più governi che non sono stati in grado di strutturare politiche adeguate a far regredire il tasso di povertà. Ciò ci preoccupa molto perché, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ha sottolineato che, a seguito dell’entrata in vigore della legge che ha modificato il Reddito di Cittadinanza, potrebbero esserci ancora un milione di persone che andrebbero ad aggiungersi alla platea dei nuovi poveri. Questo è il quadro attuale, a tinte molto fosche della povertà in Italia.
Oggi, nel nostro paese, le misure di contrasto alla povertà sono essenzialmente due: l’Adi (Assegno di Inclusione) e il supporto alla formazione e al lavoro. Queste misure hanno cambiato il passo: non sono più universalistiche ma agiscono per categorie. Tornare al principio dell’universalismo è fondamentale, non è possibile dividere le persone in difficoltà economica e fragilità sociale tra coloro che hanno più di 18 anni o più di 60. Questo ci sembra un errore strategico. La povertà è un fenomeno multidimensionale e non dipende semplicemente dall’assenza di lavoro. In questi anni, ad esempio, si caratterizza per essere una povertà nella quale può cadere chi lavora e che, magari, riescono ad avere uno stipendio che, in tempi recenti, avrebbe consentito loro una vita decente.
Oggi però, una famiglia composta da due genitori e un figlio, con un solo stipendio di 1300 euro mensili, può essere in condizione di povertà. L’innalzamento dei tassi di inflazione ha portato a una drastica riduzione del potere d’acquisto, creando nuove povertà. Ci sono poi coloro che hanno perso il lavoro a causa della pandemia o di altri fattori e sono gli ultimi fra gli ultimi. Alla luce di questi fattori, occorre creare delle politiche di infrastrutturazione sociale. Se si vive in luoghi in cui, il quadro delle disponibilità per la presa in carico delle persone, è scomposto si rischia di rimanere isolati. Serve quindi una riforma del sistema di welfare italiano, in grado di rafforzare i poli di prossimità alle persone, ovvero i comuni, per fare il modo che, tutti coloro i quali non saranno intercettati dell’assegno di inclusione o dal supporto alla formazione e al lavoro, possano essere adeguatamente accompagnati.
È necessario rivedere anche il sistema di infrastrutturazione del lavoro, ossia i centri per l’impiego e le strutture territoriali che aiutano le persone nel percorso verso l’entrata nel mondo del lavoro. Molte persone che non avranno diritto alle misure di sostegno si rivolgeranno ai comuni e, di conseguenza ai sindaci e agli assistenti sociali. Al momento, nonostante il Lep, ovvero il livello essenziale delle prestazioni su quest’ultimi, molti comuni non hanno un numero sufficiente di operatori per soddisfare il fabbisogno delle comunità. Queste operazioni, se attuate immediatamente, potrebbero avviare una riforma che consenta di dare risposte e provvedimenti strutturali e universalistici per contrastare la crescente povertà.