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Noi non siamo come loro

Ho letto che Riina, noto boss mafioso, l’uomo che ha ucciso e fatto uccidere negli ultimi 20 anni tanti uomini e donne, servitori dello Stato – e che molto probabilmente non conosce la parola pietà, perché non può conoscerla l’uomo che ha ordinato di sciogliere nell’acido un bambino – è gravemente ammalato e la sua malattia non sarebbe conciliabile con il soggiorno nelle patrie galere.

Ho letto tanti commenti sulla vicenda: uno in particolare mi ha colpito. Quello, pubblicato da un sedicente “pio cristiano”, che ne auspicava la morte in compagnia di altri mafiosi. Tra i tanti quello forse più generoso sosteneva che Riina dovesse concludere i suoi giorni in carcere, perché lo Stato non dovrebbe avere pietà nei confronti di persone come lui.

Le tante riflessioni lette, le brutte parole, le imprecazioni mi hanno scosso e turbato. Quante volte, pur indossando una uniforme, mi sono ribellato, anche con veemenza, nel sentir dire di un giovane spacciatore morto per overdose: “uno in meno”. Frasi difficili da dimenticare.

Lo Stato può avere pietà per un uomo detenuto in carcere per gravi delitti? Può o deve evitare che questi muoia in una fredda stanza di pochi metri, senza alcuna possibilità di cure? Io credo che lo Stato non solo “possa” avere pena di un detenuto gravemente ammalato, ma “debba “averne. Io credo che lo Stato si debba preoccupare di proteggere e garantire la vita di qualsiasi uomo privato della libertà dalla giustizia.

Diversa, ovviamente, è l’ipotesi nella quale la pericolosità del detenuto sia ancora attuale. Tanto che, l’eventuale ammissione a cure esterne, agevolerebbe la commissione di nuovi reati. Sono d’accordo con Violante quando dice che “la Repubblica non può rispondere alla mafia utilizzandone le stesse spietate logiche di vendetta. La dignità della morte, a condizione che non sia più in grado di nuocere e che versi in condizioni di salute irreparabili, va garantita anche al criminale della peggiore risma“.

Perché se lo Stato si comportasse come la mafia allora sì che la mafia avrebbe vinto. E la morte di uomini onesti e giusti perderebbe quel grande significato che oggi viene raccolto da molti giovani che non hanno neanche conosciuto eroi come Falcone e Borsellino.

E questo scrivo, con sofferenza, pensando a te, Beppe*, amico caro, che credevi nello Stato e lo hai servito con onestà e lealtà, fino a quando i servi, quelli sì, di un altro padrone, chiamato Riina, ti hanno tolto barbaramente la vita, davanti alla tua compagna che ti aspettava sorridendo per darti un bacio, in quella stupenda spiaggia di Sicilia che io non vorrò mai vedere, perché bagnata dal tuo sangue.

*Commissario Giuseppe Montana, ucciso dalla mafia il 28.07.1985 a Porticello (Pa)

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