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Le necessità di una famiglia che riceve una diagnosi di disabilità

Quando una famiglia riceve una diagnosi di disabilità è sempre un momento di particolare criticità. Spesso, anzi sempre, vi è assenza di personale sociale ed educativo, che aiuti il nucleo familiare ad accogliere ed elaborare questo tsunami, molto doloroso. Sarebbe bello che la “presa in carico” iniziasse proprio da quel momento, dove, coinvolgendo più figure professionali, si potessero fornire, da un lato, informazioni mediche chiare e specifiche e, dall’altro, garantire un sostegno psicologico costante, magari facendo incontrare famiglie con lo stesso problema.  “Mal comune mezzo gaudio” come si potrebbe pensare. In questo caso “gaudio” non c’è, ma almeno una condivisione, un sostegno, uno scambio di idee e informazioni, che potrebbero alleviare il peso di una situazione che la famiglia dovrà portare per tutta la vita. La presa in carico è una formula tipica del linguaggio dei servizi sociali che rimanda all’idea di un servizio che si fa “carico” appunto di seguire continuativamente una persona o una famiglia in difficoltà. Però a me piace un’altra definizione di presa in carico: farsi carico dei problemi dell’altro, mettersi nei panni dell’altro, pensare: “Ma se fosse successo a me? Se io avessi un figlio disabile? Cosa farei? Come vorrei che fosse il mondo attorno a lui?”.

Vorrei che non fosse considerato solo un malato da curare, ma una persona, unica e irripetibile, con una propria dignità, con il diritto ad un lavoro pensato per lui, cucito su di lui, con il diritto a rimanere nella propria comunità, a contatto con la propria rete familiare e sociale, con il diritto di avere degli amici al di fuori della famiglia, con il diritto di poter trovare gentilezza, accoglienza, accettazione. A volte non chiediamo nemmeno alla persona disabile quali sono i suoi desideri, cosa vorrebbe fare in futuro, perché diamo per scontato che la sua vita sarà accanto ai genitori (finché ci saranno) e ai fratelli (se decideranno di tenerlo con sé). Che brutto, però. Non perché si stia male con la propria famiglia, questo no, ovviamente. Ma c’è un mondo là fuori che merita di essere vissuto, da tutti, indistintamente, e noi dobbiamo impegnarci affinché quel mondo accolga anche i nostri ragazzi. E come disse Sylvester Stallone in Rocky IV: “Se io posso cambiare e voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare”.

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