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Il necessario ritorno alle radici della spiritualità. L’eredità di Abramo

A portare nella storia umana la novità più rivoluzionaria è stata l’Incarnazione. Cioè l’irruzione di Dio nella storia umana. Inviando suo figlio, manifesta il suo amore infinito e riconosce a ogni uomo una dignità che nessun altro mai gli darà. E il figlio di Dio, uomo tra gli uomini, disvela il volto del Padre, dà quasi una concretezza fisica alla sua persona.  E, questo, con i gesti straordinari che compie, con le parole altrettanto dirompenti che pronuncia. Come il “discorso della montagna”. Forse non era andata proprio come Matteo l’ha raccontata. Più che un discorso unico, erano probabilmente parole dette in luoghi e momenti diversi, e poi messe assieme. Il posto non era propriamente una montagna, bensì una spianata a sud-ovest di una collina, et-Tabgah, vicino a Cafarnao. Ma c’era il ricordo del Sinai, il monte su cui Dio aveva consegnato a Mosè le tavole della legge. E Matteo ha cambiato un po’ le cose per dare, nei contenuti ma anche visivamente, un senso di continuità, e non di rottura, con la tradizione mosaica.

Infatti, non era una rottura, questo no. Ma neppure si può negare lo spirito decisamente innovativo del discorso di Gesù. Pur richiamando quella mosaica, la legge evangelica la completa, perfezionandola profondamente su vari fronti: nei precetti della concordia, della castità, del matrimonio, del giuramento, della vendetta, della carità. Lì dentro ci sono i principi basilari della religione cristiana. A cominciare dal prologo, le Beatitudini. Beatitudine come annuncio della vita eterna, con quell’incredibile promessa di una felicità superiore. Beatitudine come impegno del cristiano a costruire la pace e la giustizia già qui, nel mondo terreno, preparazione di quello celeste. Beatitudine come stile di vita, perché la vera vita cristiana è chiamata alla mitezza, alla purezza di cuore, alla misericordia, alla testimonianza della giustizia; dunque, tutto molto diverso da una imposizione di leggi, da un moralismo fine a se stesso, da un attaccamento eccessivo alle cose.

Era, appunto, la “diversità” del cristianesimo. Anche nel modo di pregare. Recitando per la prima volta il Padre nostro, Gesù mostra il volto autentico di Dio, ed é il volto di un Padre buono, misericordioso, compassionevole; tanto che da allora l’uomo comincia a chiamarlo per nome, a dargli del tu: “Padre nostro che sei nei cieli…”. Non solo, ma, insegnando quella preghiera, Gesù rompe definitivamente con l’attitudine antica, di tenere lontano l’uomo da Dio, la terra dal cielo. L’annuncio della vita eterna non può essere interpretato come un disinteressarsi del mondo, dei problemi umani. Il Vangelo va vissuto concretamente, sia nella dimensione spirituale sia in quella esistenziale. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Le prime comunità cristiane recitavano il Padre nostro tre volte al giorno, come rinnovamento della professione di fede. Più tardi, venne impiegato anche per la preparazione del battesimo dei catecumeni. E così, per secoli, la “preghiera del Signore” scandirà i ritmi quotidiani della vita cristiana. Resistendo a tutte le bufere del mondo, e a tutte le divisioni e i contrasti nella Chiesa. Per capire cosa è oggi la fede bisogna risalire alle origini, alle fondamenta, per così dire, della religiosità, e seguirne poi il cammino lungo la storia dell’umanità. Ebbene, all’inizio di non c’erano religioni, non c’erano Chiese, comunità spirituali, sette. Non c’era niente. Eppure, l’uomo di allora era religioso. A modo suo, ma profondamente, spontaneamente, religioso. Lo era per quella legge naturale che da sempre è inscritta nel cuore umano; e che permette di discernere, per mezzo della ragione, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è verità e ciò che è menzogna. Ma era religioso, l’uomo primitivo, anche perché, a differenza dell’uomo venuto dopo, e più ancora a differenza di quello moderno, poteva “vedere” più facilmente la presenza di un Essere supremo nella realtà che lo circondava, nell’esperienza che faceva ogni giorno. La luce e le tenebre, il cielo e la terra, le acque, i germogli, le stelle, i pesci, i volatili, gli animali, tutto questo, prima che venisse raccontato nel libro della Genesi, era la testimonianza visibile, concreta, di un gesto creativo. E quindi l’uomo era portato dal suo stesso spirito a venerare l’Autore di quel gesto, considerandolo il principio della propria storia e della storia degli altri uomini, fonte e giudice di ogni bene.

A quel tempo, ovviamente, si trattava di una religiosità soprattutto personale, e che sconfinava spesso nell’idolatria, nella superstizione. E tuttavia, era un uomo che pregava. E pregare, per gli antichi, era respirare. Era vivere. Poi, con il progredire dell’umanità, erano cominciate a sorgere, e a crescere, alcune tradizioni religiose, più comunitarie, più stabili, benché ancora in forme imperfette, pagane, ambigue, com’era specialmente nelle religioni naturalistiche e politeistiche. Da quelle orientali, legate spesso al culto degli antenati, a quella scandinavo-islandese. Le più famose, la comunità armena, quella alessandrina, quella siriana, quella etiope. Ognuna aveva i suoi atti cultuali e rituali. Ognuna aveva una sua concezione di quell’Essere superiore, un suo modo di onorarlo, di pregarlo, un suo modo di chiamarlo.

Nella mitologia greco-romana, c’era un dio sommo, Giove, al di sopra di tutti gli dèi che popolavano l’Olimpo: Diòs o anche Diòspiter, era chiamato in greco; e, in latino, Juppiter, che proveniva da Deus Pater, Dio Padre. Nell’antica religione indiana si chiamava Dio Narayana (il dio cosmico) o Vasudeva (il dio storico supremo). “Al Dio sconosciuto”, c’era scritto – come più tardi avrebbe raccontato Paolo nell’Areopago – su un’ara ateniese. L’uomo, anche senza averne un’immagine precisa, venerava Dio, lo invocava nella sua preghiera, e continuava a cercarlo, “a tentoni”, nella speranza di scoprirlo. Passò un tempo infinito, sconosciuto, e cominciarono a spuntare, l’una dopo l’altra, le religioni che si rifacevano ad Abramo, padre comune nella fede. Il Signore “lo fece uscire da Ur”, come ricorda la Genesi, e da lì si iniziò un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Erano le religioni rivelate, perché nate tutte dalla rivelazione di un Dio unico, assoluto. O anche, le religioni del libro, perché legate a uno stesso libro originario, la Bibbia. Dalla Torah ebraica sarebbe disceso il Vangelo dei cristiani; poi, dall’una e dall’altro, ne sarebbe derivato il Corano dei musulmani. Fu perciò con Israele, per la prima volta, che l’idea di paternità divina maturò e si approfondì nella vita e nel sistema di valori di un intero popolo. E fu appunto a Israele – sanzionando così l’alleanza con quel popolo, il suo popolo – che Dio si rivelò, dando a Mosè il Decalogo sul monte Sinai, dopo l’esodo dall’Egitto.

All’inizio, c’è come un prologo per riaffermare l’autorità e la maestà divine: “Io sono il Signore Dio tuo”. Quindi, i primi tre comandamenti, le prime tre “parole”, che riguardano Dio: non avrai altro Dio all’infuori di me; non nominare il nome di Dio invano; ricordati di santificare le feste. Mentre gli altri sette riguardano il prossimo, ossia il rapporto tra gli uomini: onora il padre e la madre, non ammazzare, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna e la roba d’altri. Insomma, una religiosità sostanzialmente nuova: chiamava ad adorare Dio e, insieme, ad amare il prossimo. Così, da più di tremila anni fa, il Decalogo rappresenta il testo di riferimento per l’ebraismo, come lo sarà successivamente per il cristianesimo, e più tardi per l’islam. E’ il fondamento della fede e, insieme, della legge morale scritta indelebilmente nella coscienza di ogni singolo uomo – l’uomo di ieri, di oggi, di sempre – e nella coscienza collettiva dell’umanità. E a leggerli bene, i comandamenti, e non con i pregiudizi di chi vorrebbe estromettere Dio dal mondo, si capirà come non contengano affatto divieti, imposizioni, costrizioni della libertà personale; ma siano come una guida, l’indicazione di una strada da percorrere, così che l’uomo arrivi ad essere veramente, pienamente, uomo. Come diceva – pensate un po’! – perfino Lutero, che definì il Decalogo “lo specchio in cui vedere ciò di cui hai bisogno, trovare ciò che ti manca e ciò che devi cercare”.

Gianfranco Svidercoschi: