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Vendere il corpo, perdere l’anima

È ormai un fenomeno sempre più diffuso quello delle piattaforme online che permettono di mettere in mostra il proprio corpo in cambio di soldi. I giornali e i media, incautamente ignari delle ricadute etiche e interessati solamente all’aumento di visibilità, sono serviti da cassa di risonanza. Molti articoli sono stati infatti dedicati all’enorme successo riscosso da una nuova piattaforma che permette di monetizzare le proprie fotografie e video. La piattaforma è nata per offrire contenuti esclusivi ad un pubblico di abbonati disposti a pagare per avere accesso al materiale selezionato. Tuttavia, se l’idea iniziale era vendere qualsiasi tipo di contenuto, nella pratica sembrerebbe essere diventata per tutti l’APP ideale diffusione di materiale pornografico.

I media hanno sottolineato il fattore che più interessa al pubblico: la possibilità di guadagno facile. Così ci hanno raccontato storie da sogno di commesse o impiegate che hanno rinunciato ai propri contratti di lavoro per chiudersi in cameretta a fotografarsi e guadagnare così il doppio, il triplo o ancora di più di quanto la loro azienda fosse disposta a pagare alla fine del mese per la fatica quotidiana. Così, ci spiegano i giornali, giovani donne (la maestra, la cameriera, la mamma casalinga, oppure la mamma assieme alla figlia) sono diventate star del web mentre i loro conti in banca hanno raggiunto cifre inimmaginabili. Si parla di cifre che vanno dai seimila ai trentamila euro al mese (circa lo stipendio annuo di un semplice impiegato, magari con moglie e figli a carico).

L’azienda, fondata nel 2016 a Londra, ha avuto un successo esponenziale in questi ultimi due anni grazie alla pandemia e al lockdown (e questo già dovrebbe far riflettere) e ha oggi fatturato che va dai cinque ai sei miliardi di dollari annui grazie a circa 200 milioni di utenti attivi (in maggioranza minori di 34 anni).

Peccato che dietro ai racconti da favola a lieto fine, di vite stravolte positivamente e di “vissero felici e contente”, ci siano dei risvolti etici e sociali che nessuno è disposto ad analizzare di fronte alla possibilità di guadagno facile che soddisfa ed appaga.

Pochi sono infatti interessati ad approfondire il significato di questo fenomeno, ultimo tassello di una deriva iniziata con l’avvento dei social network nelle vite delle ultime generazioni. Il fenomeno dei social ha portato ad una necessità compulsiva di iper-esposizione e richiesta implorante di approvazione. E dal desiderio di notorietà al desiderio di guadagno il passo è estremamente breve.

Molti influencer – questo va loro riconosciuto – hanno raggiunto fama e grossi guadagni grazie ad un lavoro meticoloso e faticoso. Non si può negare che molti raccolgano (in dollari o euro) ciò che hanno faticosamente seminato con sacrifici e impegno. Il successo richiede fatica e rinunce anche nel mondo dei social. Tuttavia il fenomeno cambia le carte in tavola permettendo guadagni immediati a chi è disposto semplicemente a mostrare il proprio corpo a cambio di soldi.

Tradizionalmente questo tipo di mercato in cui si utilizza il proprio corpo in ambito sessuale a fine di lucro viene definito “prostituzione”. Ma i benpensanti, accecati dal faro dell’autodeterminazione che finirà per seppellirci, rifiutano di definire in questi termini il fenomeno in oggetto ritenendo l’accostamento alla prostituzione uno stereotipo moralista e preferendo definire i protagonisti degli artisti o imprenditori di successo.

Sebbene, secondo il modo comune di pensare, ognuno sia libero di utilizzare il proprio corpo come desideri, assumendosene le conseguenze, è auspicabile quantomeno che un campanello d’allarme suoni per evidenziare le derive psicologiche, sociali e spirituali a cui vanno incontro i nostri giovani. Gli psicologi avranno un bel da fare (e ne hanno già) nell’affrontare le conseguenze sulla psiche della nuove dipendenze, in particolare se quella dai social si unisce a quella della pornografia (due piaghe che stanno distruggendo un’intera generazione) in un unico fenomeno globale sempre più in crescita. Senza parlare della schizofrenia di una società che da una parte alza le bandiere e gli slogan del femminismo mentre dall’altra dichiara merce in vendita il corpo delle donne. Ma un aspetto di cui nessuno sembra interessarsi è quello delle implicazioni spirituali che tutto ciò comporta.

Una società che ha smarrito e dimenticato l’anima non può certo essere capace di giudicare rettamente l’utilizzo del corpo. Non solo il cristianesimo infatti, ma le grandi narrazioni filosofiche e religiose hanno infatti avuto chiaro che l’uomo ha un’anima e questa ha una stretta relazione col corpo. Questo a prescindere dalle diverse teorie e concezioni che da Platone in poi si sono susseguite nella storia del pensiero occidentale.

Per il cristianesimo, che eredita ed elabora il pensiero greco e che ha contribuito a costruire il pensiero occidentale, l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio ed è dunque “un essere insieme corporeo e spirituale” (CCC 362), uno “spirito incarnato” (R. Lucas Lucas). In virtù di questa intima unione anche il corpo partecipa della dignità divina e non è consentito all’uomo disprezzarlo. Al contrario, consapevole di questa dignità, il corpo dev’essere trattato con onore e rispetto sapendo che “la sessualità esercita un’influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima” (CCC 2332). Di conseguenza ogni uso improprio del corpo (proprio ed altrui) influisce inevitabilmente anche sulla sfera spirituale dell’uomo, in altre parole, sulla sua anima che l’uomo è chiamato a salvare. Alla salvezza dell’anima contribuisce in maniera decisiva il corpo (che il cristianesimo non considera una gabbia o un peso dal quale liberarsi, ma parte integrante dell’essere umano destinata alla redenzione). La tradizione spirituale cristiana ricorda che è col corpo che si combatte per salvare l’anima e che nessun cammino di conversione è “disincarnato”, ma coinvolge l’intera persona.

Un tale discorso è arduo per chiunque sia fuori dalla Chiesa e lontano da una visione cristiana dell’uomo e della vita umana. In pratica è arduo per tutti coloro che oggi in un modo o nell’altro (attivamente o indirettamente, promuovendo, sostenendo, banalizzando o tacendo di fronte a certi fenomeni) considerano cosa normale offrire il proprio corpo al miglior offerente.

Potremmo definire la nostra società come la “prima società senza anima” giacché la fede nella sua esistenza viene ormai considerata una credenza per retrogradi e bigotti. Una società ha da tempo dichiarato guerra totale a tutto ciò che danneggia il corpo (dal fumo, all’olio di palma) dimenticando di considerare tutto ciò che nuoce all’anima, vittima di una cecità spirituale dalla quale non sembra voler guarire perché l’anima è morta e nessuno sembra sentirne la mancanza.

Alla scomparsa dell’anima ha dedicato il suo ultimo lavoro il filosofo Robert Redeker. In uscita in Francia il 23 marzo col titolo L’abolition de l’âme, il saggio si propone di analizzare la progressiva scomparsa dell’anima dalla società, un tracollo spirituale iniziato nel XVI secolo e arrivato oggi al suo tragico compimento in una società materialista completamente dis-animata.

All’uomo senz’anima non resta che il corpo. All’uomo senza destino non resta che il presente, con tutta la sua tragicità e il suo impellente bisogno di evasione e di appagamento. Se non si possiede un’anima e di conseguenza un orizzonte di eternità (beata o dannata che sia) il gioco vale la candela e tacciano i bigotti! Ma se l’uomo possiede un’anima ed essa ha un destino eterno, se il suo destino dipende dal suo presente e questo non può che attuarsi nella sfera corporea, vendere il proprio corpo non potrà mai far guadagnare abbastanza se la posta in gioco è perdere l’anima. Lo disse qualcuno che possedeva ben pochi “like” e finì per venir crudelmente “bannato” dalla vita sociale: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,36). Ma abbiamo ancora un’anima da difendere?

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