Migranti: l’accoglienza, medicina di speranza

Migranti
Foto © Image

Dopo anni di proposte, le più svariate, viene siglato il patto tra Italia e Albania che prevede centri, costruiti e gestiti a nostre spese, in quella Nazione dove verranno trasferiti i migranti che sbarcano nel nostro Paese.

Negli ultimi decenni, l’esternalizzazione del controllo migratorio è diventata uno dei pilastri fondamentali delle politiche europee sui confini e il Protocollo Italia-Albania ne rappresenta una nuova preoccupante frontiera. Da giurista mi chiedo: è legale che un migrante, dopo le mille peripezie per arrivare in Italia (fatti che ben conosco avendo per circa due anni fatto parte di una Commissione per il Riconoscimento di Misure di Protezione Internazionale), venga trasferito in Albania?

L’accordo Rama-Meloni rappresenterebbe un esempio per l’intera Europa. Ho ascoltato con interesse l’intervento in televisione di un deputato che si chiedeva perché le caserme dismesse in Italia non venissero convertite in centri di accoglienza per i migranti in attesa di definizione delle procedure. Una proposta da me auspicata una decina di anni fa, quando avevo un incarico in un partito: allora sembrò una provocazione. Peraltro, proponevo di costruire queste strutture ai confini italiani e, quando altri Paesi si sarebbero mostrati non propensi ad accogliere i migranti nei loro territori, avrei aperto le porte di queste strutture anziché vigilarli con militari armati.

Perché l’Italia quando ha dovuto affrontare il fenomeno migratorio con numeri preoccupanti è rimasta isolata. Chiediamoci: chi decide di fare migliaia di chilometri per scappare dal proprio Paese, attraversare il deserto, rischiando di essere incarcerato e seviziato in Paesi in cui le parole libertà e diritti umani sono miraggi, ha diritto oppure no di essere accolto ed aiutato ad inserirsi in una società che si proclama civile?

Ovviamente chi arriva nel nostro Paese per delinquere va perseguito a norma di legge e rispedito nel suo Paese di origine, qualora vi siano trattati internazionali che lo consentono, (e che andrebbero stipulati). Ma come si può vietare ad una persona o ad un popolo il diritto di scappare dalla fame o dalla guerra?

Anni fa un politico mi chiese di ascoltare una delle tante tristi storie di migranti in fuga che avrei dovuto “interrogare”. Pur non potendolo fare, lo feci sedere accanto a me. Io con il tablet postato su Google Heart ero preso nel seguire il percorso del migrante che non doveva avere più di 18 anni. Non era stato un viaggio di piacere. Il ragazzo aveva dovuto passare il deserto del Sahara, aveva visto uccidere a bastonate suoi compagni di sventura, poi era stato incarcerato un anno in Libia. Ad un tratto, mentre il giovane parlava, mi girai per guardare il mio amico. Aveva gli occhi lucidi e mi chiese di allontanarsi dalla stanza tanto era commosso. Dopo circa due anni di istruttorie, il mio compito di Commissario terminò ma ho ancora davanti a me gli occhi pieni di lacrime di tanti giovani, volti in cui la sofferenza era scritta con rughe e cicatrici. Noi siamo un Paese considerato “ancora ricco” anche se, nelle città, abbiamo anziani che vanno a rovistare nei bidoni della spazzatura ma la nostra vera povertà emergente è la mancanza di umanità. Anche noi cristiani ci riempiamo spesso la bocca con belle frasi del Vangelo che dovrebbe essere letto tutto e più volte, meditato, perché non c’è fede senza carità.

Ed il Cristo, un giorno, ce ne chiederà conto: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”.