Opinione

Il mandato fondamentale che Francesco assegna ai teologi

Ricevendo i membri della Commissione teologica internazionale, papa Francesco ha rievocato come a Nicea si sia celebrato il primo Concilio ecumenico, nel quale la Chiesa ha potuto esprimere la sua natura, la sua fede, la sua missione, per essere, come afferma l’ultimo Concilio. “Il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”, ha detto Joge Mario Bergoglio, citando la “Lumen gentium”, cioè la costituzione dogmatica uscita dal Concilio Vaticano II. Secondo il Pontefice la sinodalità è la via per tradurre in atteggiamenti di comunione e in processi di partecipazione la dinamica trinitaria con cui Dio, per mezzo di Cristo e nel soffio dello Spirito Santo, viene incontro all’umanità.

Ai teologi è affidata la grande responsabilità di sprigionare la ricchezza di questa meravigliosa “energia umanizzante”. I teologi, quindi, sono chiamati ad essere testimonianza, nel loro lavoro collegiale e nella condivisione delle loro peculiarità ecclesiali e culturali, di una Chiesa che cammina secondo l’armonia dello Spirito, radicata nella Parola di Dio e nella Tradizione vivente. Dimostrazione quotidiana di una Ecclesia che accompagna con amore e con discernimento i processi culturali e sociali dell’umanità nella transizione complessa che stiamo vivendo.

Ai teologi Francesco assegna un mandato fondamentale: “Non accontentatevi di quanto già acquisito: tenete aperti il cuore e la mente al ‘semper magis’ di Dio”. Le radici dell’appello papale affondano in secoli lontani della storia cristiana e riannodano i fili del Magistero pontificio. La coscienza, espropriata della sua funzione primaria, si è sentita sempre più svuotata, smarrita. Ora, infatti, il confronto (e lo scontro) tra il bene e il male si svolgeva altrove, nel mondo. Quindi, fuori della coscienza. Dove, di conseguenza, si attenuava progressivamente la consapevolezza di ciò che comporta l’impegno morale del cristiano. E se è vero che si irrobustiva la percezione del cosiddetto “peccato sociale”, è altrettanto vero che si affievoliva il senso del peccato, inteso prima di tutto, ricordava san Tommaso, come “qualcosa di personale”. Dunque, continuando nella metafora, cielo e terra erano diventati lontani. I credenti facevano sempre più fatica a riconoscere Dio nella propria quotidianità. E, prima ancora, era la Chiesa che sembrava facesse fatica a trasmettere una fede incarnata nella vita degli uomini.

L’annuncio evangelico, forse perché appesantito da troppa autorità, da troppe sovrastrutture, non sempre riusciva a ridare speranza all’essere umano, a rispondere alle sue inquietudini metafisiche. Niente, o quasi niente, che colmasse il “vuoto” lasciato dal crollo delle ideologie – come quello, imminente e clamoroso, del marxismo – e dal venir meno della cieca fiducia di un tempo nella scienza. Eppure, c’era stato un Concilio che aveva ricongiunto cielo e terra. Aveva ridisegnato una nuova immagine di Chiesa, mistero di salvezza, e, nello stesso tempo, aveva delineato nuove relazioni tra Chiesa e mondo. Appunto, le due grandi costituzioni: quella dottrinale, Lumen gentium, e quella pastorale, Gaudium et spes. Con un rovesciamento – specie nel secondo documento – del metodo che per secoli era stato impiegato dai pontefici per interpretare la realtà, ovvero il metodo classico della neo-scolastica. Adesso, si procedeva a rovescio, si partiva dal basso, dalle situazioni umane, e non più dall’alto, non più dalle enunciazioni scritturistiche, patristiche, dogmatiche, intese come principi generali, assoluti, intoccabili.

Gianfranco Svidercoschi

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