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Quelle locuzioni inglesi che prevaricano la lingua italiana

Di gnente. È la risposta testuale data ad un messaggio di grazie scambiato su whatsapp. Una signora ha acquistato un’autovettura dall’uomo di trentacinque anni, meccanico, che si è presentato all’appuntamento per la consegna vestito decentemente, dopo aver fatto appositamente lavare l’auto, acquistato un deodorante, riempito il serbatoio del carburante, fornito garbatamente le informazioni necessarie e ringraziato per la trattativa; l’auto, una classe A di ventidue anni tenuta in ottime condizioni, il prezzo € 300, trecento euro.

La vicenda merita attenzione poiché un giovane onesto lavoratore, sposato e padre di due bei bambini, non solo ha mantenuto l’auto in ottime condizioni e l’ha venduta senza alcuna speculazione, ma si è curato di comportarsi al meglio delle sue possibilità, addirittura riempiendo il serbatoio di carburante. Una persona oltremodo corretta e galante.

Certamente è stridente il contrasto con il suo errore grammaticale, reso palese dal nuovo metodo di comunicazione che impone la forma scritta a cui non tutti sono avvezzi, palesando spesso uno scarso grado di istruzione; una volta mi capitò di affermare provocatoriamente, in una cena con amici docenti universitari, che si dovrebbe abolire l’uso dell’acca nelle forme verbali, per evitare l’imbarazzo in chi scrive ed in chi legge tali errori, purtroppo molto diffusi: rimasi stupito dalla risposta di uno dei commensali che dichiarò che nelle sue esercitazioni scritte lo aveva già fatto, in quanto si preoccupava della comprensione dei concetti specifici della sua materia (era un economista) e non degli errori grammaticali che riteneva di scarso valore. Pensai che forse, in maniera analoga, si era transitati nel XIII secolo dal latino alla lingua volgare, e mi sentii un imbellettato parruccone di corte sordo al trascorrere dei costumi poiché, sarà pure uno scempio, ma la lingua italiana sta cedendo all’uso diffuso di formule errate con il prevalere, forse prevaricare, di locuzioni inglesi in luogo delle corrispondenti forme italiane.

È un dato oggettivo, che si può constatare quotidianamente, dal treno Intersiti Plas (lo dicono così, ignorando il latino) ma si chiamava Espresso, alla ficscion (che si chiamava sceneggiato), con una progressiva sostituzione dei vocaboli italiani con quelli inglesi o, peggio, con sigle ed acronimi anche di difficile comprensione.

Ma le buone regole rimangono; il giovane che ha venduto l’auto si è comportato degnamente ancorché il suo livello di istruzione sia scarso mentre esempi di comportamenti inaccettabili da parte di persone istruite sono frequenti per cui dev’essere cambiato qualcosa nel rapporto tra etica ed istruzione, tra virtù e conoscenza, o forse l’istruzione si è distaccata dalla cultura, dalla sapienza, dalla saggezza. Certo è che assistiamo ad un grande ritorno a valori che sembravano desueti: rispetto, considerazione per gli anziani, stima per il prossimo, riscoperta della famiglia, della donna, del dialogo pacato, serio e costruttivo, dell’attesa, dei ruoli, dei progetti e delle aspettative; a qualcuno sembrerà strana questa mia osservazione ma non bisogna guardare al fenomeno di oggi, conseguente alla caduta libera di questi valori per effetto di visioni errate che fortunatamente sono svanite lasciando il posto alle giovani generazioni che hanno archiviato le ideologie e si sono riscoperti negli insegnamenti dei nonni, saldi e solidi, radicati, imperituri. Benedetto XVI, nella lettera sulla pedofilia dell’aprile 2019, sembra dire con chiarezza che cinquant’anni fà, nel vituperato ’68, l’Umanità ha inseguito la lepre sbagliata.

Ricordo che in quegli anni si proponeva la cultura come chiave di accesso al superamento dello sfruttamento delle classi inferiori ed effettivamente occorreva uscire da quella condanna generazionale a seguire obbligatoriamente le orme dei genitori: all’apparire di Andrea Chenier, Gerard, lacchè di corte, rimprovera al padre di aver figliato dei servi. Il balzo in avanti delle classi sociali è stato notevole ed è, anche, conseguenza del superamento di questo limite ma sembra essere giunto ad un punto morto, addirittura innescando il moto contrario; oggi si insegue la rivendicazione sociale attraverso il famigerato titolo di studio ma sembra sfuggire che la crescita culturale ha rivalutato anche le attività in precedenza più umili, dando alle stesse prestigio e redditività: si pensi all’agricoltura o all’artigianato ed alla enorme crescita in considerazione e partecipazione di fronte alla crisi delle professioni liberali, tanto ambite nel recente passato.

Gli ultimi, se tali erano, stanno risalendo: è tempo di bilanciare il rapporto tra istruzione e cultura.

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