Opinione

La liturgia, il culmine dell’azione della Chiesa

Papa Francesco riconosce ai Padri conciliari il merito di aver affrontato il tema della liturgia, “luogo per eccellenza in cui incontrare Cristo vivo”, esortando alla formazione dei fedeli e promuovendo azioni pastorali. Jorge Mario Bergoglio insiste sulla necessità della “formazione liturgica” e rimarca quanto importante sia per tutti. Non si tratta di una specializzazione per pochi esperti, ma di una disposizione interiore di tutto il popolo di Dio.

Ciò naturalmente non esclude che vi sia una priorità nella formazione di coloro che, in forza del sacramento dell’Ordine, sono chiamati ad essere mistagoghi, cioè a prendere per mano e accompagnare i fedeli nella conoscenza dei santi misteri. Afferma Francesco: “Una Chiesa che non sente la passione per la crescita spirituale, che non cerca di parlare in modo comprensibile agli uomini e alle donne del suo tempo, che non prova dolore per la divisione tra i cristiani, che non freme per l’ansia di annunciare Cristo alle genti, è una Chiesa malata. Questi sono i sintomi di una chiesa malata”.

All’inizio, terminate le assise ecumeniche, ci fu una esplosione di entusiasmo, di vivacità ecclesiale. Quando si parla di “riforma della Chiesa” ci si trova sempre dinanzi a una “questione di fedeltà sponsale”, chiarisce Francesco, aggiungendo che “la Chiesa Sposa sarà sempre più bella quanto più amerà Cristo Sposo, fino ad appartenergli totalmente, fino alla piena conformazione a Lui”.

Uno storico francese, Emile Poulat, scrisse che la Chiesa cattolica era cambiata più nei dieci anni seguiti al Vaticano II che non nei cento anni precedenti. Verissimo. Ma è anche vero che la classe clericale prestò più attenzione ai cambiamenti di ordine istituzionale e strutturale – come la creazione di un Sinodo dei Vescovi – che non a quelli sul piano pastorale, e che riguardavano ovviamente l’intera comunità cattolica.

Con le sue novità, a cominciare dall’uso delle lingue volgari nella Messa, la riforma liturgica aiutò sicuramente la massa dei credenti a respirare la nuova aria che circolava nella Chiesa, e a immetterla nella propria quotidianità spirituale, Ma, e questo fu un primo limite, mancò l’impegno fattivo dei vescovi e soprattutto dei parroci a “raccontare” il Concilio ai laici cristiani, a spiegargli il significato dei nuovi gesti che essi compivano, delle nuove parole che pronunciavano, delle nuove responsabilità di cui i Papi – come Paolo VI con l’“Humanae vitae” – li chiamavano a prendersi carico. Come dire, molto in sintesi, che il Concilio rimase un fatto essenzialmente “clericale”.

Nel popolo, dunque, non ci fu quel processo di interiorizzazione del Vaticano II che avrebbe dovuto portarlo a una nuova maniera di vivere la fede, di testimoniarla nella vita di tutti i giorni. E intanto, si acuiva il contrasto fra tradizionalisti e riformisti, c’erano le fughe in avanti del cattolicesimo olandese, la ribellione di monsignor Marcel Lefebvre era ormai sull’orlo dello scisma. Non solo, ma la Chiesa non poteva non risentire i contraccolpi degli eventi esterni, dei tanti rivolgimenti nel segno di una secolarizzazione sempre più spinta, e di una diffusa laicizzazione degli stili di vita, dei costumi, degli stessi valori. Fino alla ventata libertaria del Sessantotto, che provocò grandi disastri, svuotando seminari, conventi e parrocchie.

Ma, secondo Francesco, senza riforma liturgica non c’è riforma della Chiesa, afferma il Papa nel discorso ala plenaria del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: una Chiesa che non cerca di parlare in modo comprensibile agli uomini e alle donne del suo tempo “è una Chiesa malata”, il ruolo della donna è centrale ma non va ridotto alla sola “ministerialità”. Il Concilio Vaticano II, così, rivelò una Chiesa diversa da com’era stata fino ad allora guardata, giudicata. E diversa, specialmente, per come adesso intendeva essere presente sui molteplici fronti dell’umanità: la famiglia, il lavoro, la giustizia, la scienza, la guerra e la pace.

Era la nuova Chiesa plasmata dall’altra grande costituzione, la “Gaudium et spes”. Quella che, già nel suo esordio, esprimeva il mutamento radicale operato dalla Chiesa nel suo rapporto con il mondo. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…”.

Per Francesco è essenziale che “i pastori sappiano condurre il popolo al buon pascolo della celebrazione liturgica, dove l’annuncio di Cristo morto e risorto diventa esperienza concreta della sua presenza che trasforma la vita”, per tale motivo chiede che, “nello spirito di collaborazione sinodale tra i Dicasteri, auspicata nella Praedicate Evangelium” la formazione liturgica dei ministri ordinati venga “trattata anche con il Dicastero per la Cultura e l’Educazione, con il Dicastero per il Clero e con il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica”, perché ciascuno possa offrire “il proprio specifico contributo”. Questo perché, essendo la liturgia “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia”, come si legge nella Sacrosanctum Concilium, allora è necessario “che anche la formazione dei ministri ordinati abbia sempre più un’impronta liturgico-sapienziale, sia nel curriculum degli studi teologici sia nell’esperienza di vita dei seminari”.

Gianfranco Svidercoschi

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