I cristiani ereditarono la celebrazione della Pasqua dal popolo ebraico attualizzando il tradizionale significato della festa con la celebrazione della Risurrezione di Gesù Cristo. Se è certo che i cristiani celebrarono il ricordo della Risurrezione ogni domenica con la “santa cena”, le testimonianze più antiche confermano che una volta l’anno celebravano solennemente la Pasqua.
Pur nelle differenze (di data, di orari, di riti, di modalità celebrative) rimangono stabili nel tempo alcuni momenti fondamentali di questa celebrazione: il segno della luce, la proclamazione delle letture dell’Antico Testamento, il Vangelo della Risurrezione, la celebrazione della Eucaristia (agape) e il contesto battesimale che da sempre ha caratterizzato la celebrazione.
Uno degli aspetti centrali rimane dunque il racconto della storia della Salvezza attraverso le varie tappe narrative dell’Antico Testamento. Tuttavia non sappiamo con certezza quali letture venivano proclamate nei primi secoli durante la Santa Veglia Pasquale. Attualmente il lezionario della Veglia pasquale presenta sette letture veterotestamentarie, ma è difficile identificare con precisione quali letture venivano proclamate dai primi cristiani durante la notte santa. La storia del lezionario di Pasqua è oggetto di diversi studi in ambito storico-critico, teologico e liturgico[1].
Le testimonianze più antiche forniscono poche indicazioni in merito ma permettono di stabilire con certezza che durante la celebrazione del Sabato Santo si proclamavano letture dell’Antico Testamento per fare memoria della storia di salvezza operata da Dio col suo popolo: tra queste in particolare il racconto della Creazione (Genesi), il passaggio del Mare Rosso (Esodo), alcuni salmi e brani tratti dai profeti. Col passare dei secoli il lezionario del Sabato Santo è stato più volte rivisto e aggiornato. Quello odierno è dunque il frutto di diverse riforme, l’ultima in ordine di tempo quella del Concilio Vaticano II che ha stabilito sette letture dell’Antico Testamento, un’Epistola e un Vangelo.
È interessante notare che dopo le diverse riforme, oggi è “scomparsa” dal Lezionario la lettura del profeta Daniele che, secondo le testimonianze più antiche, veniva proclamata dalla Chiesa durante la notte santa. Si tratta del capitolo 3 che narra la storia dei tre giovani ebrei gettati nella fornace ardente dal re babilonese Nabucodonosor II. Un testo caro ai cristiani dei primi secoli come dimostrano le testimonianze artistiche presenti nelle catacombe romane e in altri siti archeologici dove la raffigurazione dei tre giovani è presente in alcuni antichissimi affreschi assieme alle immagini del Buon Pastore e di altre figure tipiche dell’arte cristiana dei primi secoli.
I tre giovani Anania, Azaria e Misaele (in ebraico Sadrach, Mesach e Abdenego) erano dei giudei compagni del profeta Daniele che, nel periodo della dominazione babilonese, prestavano servizio nella corte del re Nabucodonosor. Il rifiuto di adorare la statua del re, per fedeltà al loro Dio, scatenò l’ira del sovrano. I giovani furono condannati a morte e gettati in una fornace ardente. Qui i giovani, mantenendo salda la fede e la fiducia in Yahvé intonarono canti di lode al Signore mentre rimanevano indenni in mezzo alle fiamme. «Essi passeggiavano in mezzo alle fiamme, lodavano Dio e benedicevano il Signore» (Dn 3,34). Il re e i suoi inservienti videro come i giovani non subivano danno e di fronte al miracolo si convertirono al dio di Israele. Il racconto – che possiamo considerare un midrash, una leggenda, un racconto edificante utile per passare la fede ai giovani e rafforzare quella degli adulti – rivela l’importanza della fedeltà di fronte alla tentazione dell’idolatria e della costanza nella prova.
Mentre i versetti 1-23 narrano le vicende appena riassunte, i versetti 24-100 contengono due cantici: il cantico di Azaria e il cosiddetto cantico dei tre giovani nella fornace. Il primo è un canto penitenziale di richiesta di aiuto, il secondo è un lungo e litanico canto di lode al Dio creatore, un inno che invita l’intera creazione a riconoscere la sovranità del Dio di Israele per la sua bontà e la sua giustizia.
Questo testo così importante per la Chiesa primitiva, racconta la vittoria della vita sulla morte, il miracolo di chi, con l’aiuto di Dio, scampa all’imminente pericolo della tomba. Così i cristiani hanno letto in questo episodio una prefigurazione e un annuncio della Risurrezione di Cristo così come un annuncio di speranza per coloro che vivono in contesti ostili alla fede (come furono i primi secoli dell’era cristiana) nell’attesa di risuscitare a vita nuova. Un cantico pasquale, dunque, che prefigura la grande festa cristiana della Risurrezione.
È dunque comprensibile che durante la Santa Veglia di Pasqua i cristiani tornassero a proclamare, ogni anno, il canto di lode dei tre giovani miracolosamente scampati dalla mano del re Nabucodonosor.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II che ha raccolto e attuato le istanze del movimento liturgico ha sostanzialmente accolto la precedente riforma di Pio XII del 1955. Ma mentre ha semplificato i riti liturgici ha aggiunto diverse letture al lezionario della Veglia. Tuttavia i padri conciliari hanno deciso di non introdurre Daniele 3 nella lista dei brani veterotestamentari. È probabile che la scelta sia stata dettata semplicemente da motivi pratici per non appesantire ulteriormente la liturgia già molto ricca. In compenso la lettura dei cantici di Daniele 3 è stata confermata nella Liturgia delle Ore come il cantico delle domeniche e delle feste liturgiche, segno dell’importanza e del significato “pasquale” di questo testo.
[1] Il libro “La bibbia si apre a Pasqua”, pubblicato nel 2016, offre, oltre al commento biblico e liturgico delle singole letture della Veglia, una sintesi della storia del lezionario, della sua formazione e del suo sviluppo nei secoli.