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Le radici di una religiosità autenticamente ecumenica

Chissà se ci ha riflettuto su, qualche studioso di storia della Chiesa. In millecinquecento anni, si erano tenuti diciannove Concili ecumenici; e poi erano passati tre secoli prima che venisse convocato il ventesimo. Ma come spiegare questo? Sì, certo, agli inizi del cristianesimo c’era stato bisogno di opporsi frequentemente a scismi ed eresie, definire dogmi e dottrine, affrontare problemi relativi all’ordine nella Chiesa e nel mondo, e controbattere infine alla Riforma luterana. E poi, anche perché in seguito sarebbe diventato quasi impossibile convocare i vescovi di tutto il mondo. Ma forse, a pensarci bene, c’era stato dell’altro.

C’era stato che la Chiesa cattolica, per non perdere il controllo del proprio potere, aveva rapidamente rafforzato gli elementi istituzionali, visibili, mondani. Ed era esploso il clericalismo! Dopo il Concilio di Trento, dopo quella ch’era stata quasi una “sacralizzazione” del sacerdozio, la Chiesa era ormai monopolio pressoché esclusivo dei chierici. La spiritualità, la dottrina, la morale, il governo pastorale, tutto veniva elaborato e controllato ed eseguito dai chierici. Già allora, c’era una mentalità clericale, una cultura clericale, c’erano comportamenti e strumenti clericali, che poi si traducevano via via in una Chiesa super-gerarchica, super-autoritaria. E, quindi, una Chiesa niente affatto disposta ad ammettere eventuali errori (come nel caso di Galileo) o a permettere (e qui ci pensava l’Inquisizione) una qualche libertà di opinioni. Le conseguenze, indipendentemente dalle cause originarie, si ripercossero ben presto sulla religiosità. I dogmi, le leggi, le norme, benché indispensabili per guidare la vita cristiana, finirono in qualche modo per sostituirsi a Dio.

La fede, ristretta entro uno schema rigidissimo di principi e dottrine, venne adeguata, se non piegata, alle regole. E quel ch’era più grave, senza però che nessuno o quasi nessuno se ne rendesse conto, si continuava a vivere o almeno a credere di vivere da cristiano, solo perché la società stessa – nelle leggi, nelle tradizioni, nelle abitudini – era apparentemente cristiana. Va detto che con una Chiesa così, convinta com’era di possedere in esclusiva la verità, il “sistema” clericale – con i suoi uomini formati come soldati – poté esserle di grande sostegno nell’attraversare i secoli, nella lotta con l’islam, nelle guerre di successione. Intanto, però, la modernità corrodeva le coscienze. L’uomo si cullava sempre più nell’illusione prometeica di diventare padrone della propria vita, della propria libertà, del proprio destino.

Ma al prezzo di recidere le proprie radici, di provocare una netta separazione tra la vita e la fede. E, questa situazione, si acuì all’arrivo dell’Illuminismo, con la cultura dell’immanenza, con le nuove idee portate dalla scienza, dal razionalismo. “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza”, diceva Immanuel Kant all’uomo che stava passando dalla modernità alla contemporaneità. E poi, il terremoto della Rivoluzione francese, con il “culto” della dea Ragione. E ancora, la Restaurazione. I rappresentanti degli imperatori che intervenivano in Conclave per impedire l’elezione di certi candidati. Il Sillabo di Pio IX, con la condanna di ogni nuova forma di pensiero. E, appunto dopo tre secoli, un altro Concilio, il Vaticano I, che però venne interrotto quasi subito dalle cannonate italiane contro Porta Pia. Segnando la fine del potere temporale dei Papi, e, nello stesso tempo, il Risorgimento che trovava il suo naturale completamento nell’unità d’Italia.

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