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Iraq 2003 –Ucraina 2023: il Magistero papale contro le guerre

Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza”, esorta Papa Francesco. Il Pontefice impegnato nella mediazione per fermare la guerra in Ucraina come lo furono i suoi predecessori per bloccare le “inutili stragi” dei conflitti degli ultimi decenni. Giovanni Paolo II non riusciva a nascondere il dolore lancinante che provava; sentiva tutta l’enormità e, più ancora, l’assurdità della nuova tragedia che stava per esplodere. Il testo dell’Angelus di quella domenica, 16 marzo del 2003, era un accorato appello alle due parti in conflitto, a Saddam Hussein e ai Paesi che componevano il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché trovassero una qualche soluzione pacifica. Ma il Papa, pur tenendo tenacemente accesa quell’ultima speranza, intuiva che la situazione era sul punto di precipitare, e presto sarebbe scattato l’attacco occidentale contro l’Iraq. Ed ecco perché papa Wojtyla, con quella contraddizione che si portava dentro, sembrava facesse fatica – e invece era sofferenza, una profonda sofferenza – a lanciare quel drammatico appello. «Dico a tutti: c’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora spazio per la pace; non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare. Riflettere sui propri doveri, impegnarsi in fattivi risultati, non significa umiliarsi, ma lavorare con responsabilità sulla pace».

Per tre volte, significativamente, il Papa ripeté: «C’è ancora spazio!», «Non è mai troppo tardi!». Quell’appello, così angoscioso e insieme così deciso, richiamò subito alla mente – anche per le “novità” che sembrava comportare – i numerosi interventi fatti dai pontefici nell’ultimo secolo per fermare la guerra. Interventi spesso inascoltati, sul momento, ma che erano rimasti nelle coscienze, e avevano fatto maturare un sempre più largo consenso attorno alla causa della pace. Dal grido di Benedetto XV contro «l’inutile strage», quand’era scoppiata la Grande Guerra; ai pressanti appelli di Pio XII nel tentativo di evitare il baratro della Seconda guerra mondiale. Da Giovanni XXIII, con la sua Pacem in Terris, e l’opera di mediazione in cui si era impegnato al tempo della crisi dei missili a Cuba; a Paolo VI, che aveva istituito la Giornata mondiale della pace, ed era andato alle Nazioni Unite a ribadire la netta opposizione della Chiesa a ogni guerra. «… non gli uni contro gli altri, non più, non mai!».

Dunque, il magistero pontificio, sulla scia del Concilio Vaticano II, aveva abbandonato definitivamente la teoria classica della moralità della “guerra giusta”. E tuttavia, pur condannando espressamente la guerra totale, pur considerandola sempre un male, non negava ai governi il diritto di “legittima difesa”, una volta esaurite tutte le risorse politiche e diplomatiche. Ma con la situazione mondiale completamente cambiata, addirittura sconvolta, rispetto a cinquant’anni prima, le «armi della difesa» (come le aveva chiamate papa Montini) potevano ancora essere moralmente “necessarie”? Il Golfo ancora in fiamme Già nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II, proponendo di metter mano a una riforma del diritto internazionale, aveva opposto un rifiuto assoluto al ricorso alle armi come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati. «La guerra – diceva – è un’avventura senza ritorno». «Non è una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità». E, tale convinzione, il Papa l’aveva immediatamente ribadita al profilarsi del secondo conflitto del Golfo (o guerra d’Iraq), per il quale non c’era più nemmeno l’“attenuante” etica di dover porre rimedio a una invasione, quella del Kuwait. In più, nel giudizio di Wojtyla, questa operazione militare internazionale – per le motivazioni stesse che ne erano all’origine – portava in sé un carico enorme di pericolosità. Per il rischio di nuovi estremismi, e di «tremende conseguenze» sia per le popolazioni dell’Iraq sia per l’equilibrio geopolitico dell’intera regione mediorientale.

Papa Wojtyla comunque non si era limitato a mettere in guardia i diretti responsabili, Saddam Hussein, presidente Usa e membri del Consiglio di Sicurezza. Si era anche adoperato – con i suoi “strumenti”, sia spirituali che diplomatici – per una vasta opera di prevenzione. Aveva proclamato una Giornata di digiuno e preghiera per la pace in Medio Oriente. Aveva parlato di quel gravissimo argomento con molti capi di Stato. E aveva inviato due suoi personali ambasciatori, a Baghdad e a Washington, per un estremo tentativo. Era stato il cardinale Roger Etchegaray, a incontrare i governanti iracheni. I quali, per la verità, si erano detti disposti a collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite (incaricati di verificare che venisse eliminato «ogni motivo di intervento armato»); ma si erano mostrati assai reticenti circa le accuse di possedere le cosiddette «armi di distruzione di massa», e di sostenere il terrorismo islamico. Atteggiamento non proprio negativo, ma fortemente ambiguo e, quindi, pericoloso. L’altro inviato pontificio, il cardinale Pio Laghi, aveva parlato con il presidente americano, George W. Bush. Il quale, senza neppure leggere la lettera inviatagli da Giovanni Paolo II, aveva risposto che comprendeva perfettamente le ragioni morali del Papa (secondo alcune fonti, invece, si sarebbe detto addirittura convinto che fare la guerra all’Iraq fosse la «volontà di Dio»), ma non poteva ormai tornare indietro. Anche perché aveva imposto un ultimatum di quarantotto ore a Saddam Hussein.

«Mai più la guerra!» Giovanni Paolo II sapeva naturalmente tutto questo, al momento di leggere all’Angelus l’appello contro la guerra. E, proprio perché sapeva tutto questo, aveva cominciato a chiedersi se quel testo – ispirato da lui, ma scritto materialmente in Segreteria di Stato – avrebbe davvero potuto esercitare una qualche pressione sui capi politici delle due parti. E fu così che a un certo punto, con quel dubbio che aveva preso a tormentarlo, papa Wojtyla smise di leggere le parole scritte. Alzò gli occhi dal testo ch’era sul leggio, e prese a parlare a braccio. Sentiva il bisogno di esprimere quello che aveva nel cuore. Non solo, ma sentiva soprattutto il bisogno di portare la sua testimonianza personale. «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto questa esperienza: “Mai più la guerra!”, come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità. E quindi, preghiera e penitenza!». Non fu ascoltato!

Passarono solo quattro giorni, e, nella notte, cominciarono a cadere le prime bombe su Baghdad. La guerra, come si temeva, ebbe esiti disastrosi; l’Iraq sarebbe diventato ufficialmente uno Stato islamico. E comunque, l’intervento del Papa non fu affatto un insuccesso. Era importante che si fosse sentita la sua voce, una voce che aveva avuto il coraggio di condannare la guerra proprio mentre la macchina della guerra si metteva in moto. «Prima di ogni prova – raccontò il suo segretario, mons. Stanislao Dziwisz – non pensava mai al fatto di uscirne sconfitto o no. Non si poneva assolutamente il problema». Giovanni Paolo II si era preoccupato di difendere la pace; non voleva che nell’opinione pubblica, nella testa della gente, attecchisse la convinzione circa la ineluttabilità della guerra. Insomma, aveva cercato di fare il suo “dovere” di fronte a Dio, di fronte alla Chiesa, agli uomini. E lo aveva fatto da uomo libero, senza farsi assolutamente condizionare né da “destra” né da “sinistra”, né dall’Occidente né dall’Oriente. E riuscendo così, con la sua autorità morale, con la sua credibilità, a tener fuori dal conflitto in Iraq i rapporti tra cristianesimo e islam; e, forse, ad evitare anche una “guerra santa”.

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