Sul finire degli anni Ottanta, una sera, di ritorno dalla lezione di catechismo, mia moglie era stralunata. Mi raccontò che diversi bambini, di quelli che avevano cominciato la preparazione alla Prima Comunione, non conoscevano il Padre Nostro, l’Ave Maria, e non sapevano neppure farsi il segno della croce. Passarono più di quindici anni, e l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, scrisse in una lettera pastorale che alcuni suoi sacerdoti gli avevano riferito la stessa cosa. Ancora altri anni, e il Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione, nel documento preparatorio, lanciò l’allarme su quel medesimo fenomeno.
Intanto però, trascorso tutto quel tempo senza che fosse stata presa la benché minima misura, si era progressivamente incrementata la “fuga” dei ragazzi dalle parrocchie; e se prima avveniva dopo la Cresima, adesso – una scoperta doppiamente preoccupante – l’allontanamento cominciava a registrarsi già dopo la Prima Comunione. E oggi, seppure in un altro contesto, si ripete la stessa situazione. Rispunta nuovamente l’incapacità di tanta parte della classe clericale, dal basso fin su in cima, di capire quanto succeda nelle pieghe della cristianità.
Ovvero, di capire perché la Chiesa stia attraversando un momento particolarmente critico, e quindi stia rischiando, nel caso non ci dovessero essere inversioni di rotta, di compromettere il suo stesso futuro. Avviato sessant’anni fa dal Concilio Vaticano II, si era messo in moto un processo di trasformazione, da una religiosità segnata per lo più dalla norma, da regole imposte come dovere di comportamento, con la funzione di disciplinare la spiritualità ma di fatto anche l’esistenza pratica del credente, a una religiosità che, ricentrandosi sulla persona, dava o almeno avrebbe dovuto dare spazio alla coscienza, e, quindi, alla libertà, alla responsabilità del cristiano. Favorendone così una maturazione sul piano della fede, da tradurre poi in un nuovo stile di vita, da testimoniare coerentemente nel quotidiano.
Un processo cominciato da tempo, ma che ha avuto, e continua ad avere, una evoluzione molto lenta, molto contrastata. Da un lato, pur tra eccessi ed ambiguità, sta plasmando una nuova generazione di cristiani; dall’altro, si porta dietro tutti i rischi, i pericoli, le incomprensioni e le resistenze proprie delle fasi di passaggio. E in mezzo – a motivo di questa situazione transitoria, confusa, e mai decisamente affrontata – una schiera di cristiani che tende ogni giorno ad infoltirsi. Sono i cristiani solo “anagrafici”, la loro fede è finita il giorno stesso del battesimo. Sono i cristiani con una religiosità del tutto soggettiva, perché hanno adattato la fede, e in particolare la morale, alle loro esigenze. Sono – questo l’aspetto più allarmante – i cristiani ormai immersi profondamente nell’indifferenza che la società d’oggi, sempre più secolarizzata, sempre più materialistica, mostra nei confronti di Dio. Insomma, tentando di spiegarlo con il simbolismo di una immagine, pensate a una persona (il popolo cattolico) che tenti di attraversare un torrente di montagna, acqua bassa ma impetuosa. E’ esattamente a metà del guado. Non vuole tornare indietro (a una religiosità formale, normativa, precettistica, che però offre ancora “certezze”), ma neppure riesce ad approdare alla riva che ha davanti (una religiosità adulta, responsabile, radicata nella coscienza, che però è spesso allergica alle regole). Se resta così, c’è il rischio che quella persona venga travolta dalla corrente (una religiosità snaturata, svuotata dei suoi valori, e che sconfina ormai nell’agnosticismo). Ce la farà, la Chiesa cattolica, ad attraversare il guado? Ad innestare la conoscenza e l’amore di Cristo nel cuore e nella vita delle future generazioni?