Identità non binaria: cosa ha deciso la Consulta (e perché)

Consulta identità non binaria
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Con la sentenza n. 143/2024, la Consulta riconosce l’impossibilità per l’ordinamento di diritto attuale di dare tutela a identità di genere “non binarie”. La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano, nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982 (in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

Del resto, le indicazioni che provengono dagli ordinamenti degli Stati europei e dalle Corti sovranazionali, rispetto al riconoscimento dell’identità non binaria, non sono univoche. Mentre è ormai ferma la tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario (fin dalla sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, Christine Goodwin contro Regno unito), la Corte EDU ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia). In senso analogo, si era già espressa la Corte Suprema del Regno Unito, a proposito dell’identificazione non binaria tramite marcatore “X” sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).

L’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile e, precisamente, un genere “neutro”, avrebbe in ogni caso un impatto generale notevole, postulando necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e rispetto ai numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria. Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia (così per il matrimonio e l’unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i “luoghi di contatto”, quali carceri, ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile).

La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona. Infatti, l’art. 35, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell’onomastica italiana i nomi ambigenere sono rarissimi.

Ad un’attenta lettura della pronuncia, emerge, anche e comunque, l’impossibilità “concreta” di realizzare questa identità “non binaria”. Infatti, nel caso di specie, la richiesta di rettificazione di sesso avviene dal femminile al maschile – dunque, in una logica binaria – pur richiedendo parte attrice, l’attribuzione di un genere “neutro”, che, però, non riesce, de facto e de iure, a raggiungere e ottenere, non essendo oggettivamente possibile la transizione ad un genere “non binario”.

Nella fattispecie concreta di cui al giudizio principale – evidenzia infatti la stessa Corte – “l’ordinanza di rimessione sottolinea come l’attore per rettificazione abbia «sufficientemente dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione»” in senso gino-androide, dunque, non “neutro”, rendendo così evidente tutta l’abnormità e fragilità del caso…

Infine, la Consulta, anche in tale pronuncia, ha ribadito che “agli effetti della rettificazione di sesso è necessario e sufficiente l’accertamento dell’«intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata»”.
E proprio alla luce di tale orientamento, ormai consolidato anche nella giurisprudenza di merito, la Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del Tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso Tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.

La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere “compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico- comportamentale, quindi, anche senza un intervento di adeguamento chirurgico”, la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che “avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione”. In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, vìola l’art. 3 Cost., in quanto “non corrisponde più alla ratio legis”.