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I problemi del Decreto Dignità

Finalmente si è giunti al primo decreto del nuovo governo italiano a composizione M5S-Lega e, dopo diversi tentennamenti, ha preso forma il c.d. Decreto Dignità.

Il provvedimento, presentato come Dl e che quindi dovrà essere convertito in legge ordinaria a breve pena la decadenza, si muove su quattro principali direzioni: contrasto al precariato, delocalizzazioni, ludopatie e misure per la semplificazione fiscale.

L’accento iniziale e, forse, il più evocativo era, però stato messo dal neoministro del lavoro Luigi Di Maio sulla questione precariato e, in particolare, sui rapporti di lavoro relativi alla c.d. Gig Economy dei riders per i servizi di consegna a domicilio legati ad app come Deliveroo o Foodora.

Cos’è la Gig Economy, però?

Da definizione con questo termine si intende un modello, sempre più diffuso, dove non sia prevista alcuna prestazione lavorativa continuativa ma questa avvenga on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze. Domanda e offerta di lavoro vengono gestite online solitamente attraverso piattaforme e app dedicate: come Airbnb per l’affitto temporaneo, Uber per i servizi di trasporto o, appunto, Deliveroo o un’altra delle app già menzionate per le consegne a domicilio. Nei modelli di gig economy non esiste, poi, un datore di lavoro ma un committente e i lavoratori sono tutti in proprio e svolgono attività temporanee remunerate, solitamente, a risultato (e.g. un tot a consegna nei casi di delivering).

Proprio da quest’ultimo fatto e dalle remunerazioni medie percepite (circa 4 euro lordi a consegna per Foodora e 7 euro lorde all’ora per Deliveroo) è nata l’idea di un provvedimento ad hoc per arginare questa forma di lavoro vista come uno sfruttamento.

La prima parte del decreto, quindi, si spinge nel tracciare delle nuove limitazioni all’uso dei lavoratori temporanei e a chiamata.

Da qui i punti essenziali richiamati negli articoli posti in apertura che riguardano:

  • La reintroduzione della causale per i contratti a termine superiori ai 12 mesi di durata;
  • la previsione di un’addizionale pari all’1.9% della remunerazione a carico esclusivo del datore di lavoro, che cresce dello 0,5% per ogni rinnovo contrattuale a tempo determinato successivo, a scopo previdenziale;
  • limite massimo di 24 mesi di durata per i contratti a tempo determinato e limite a 4 rinnovi seguenti, norma retroattiva anche sui contratti già in essere;
  • aumento del 50%  dell’indennizzo riconosciuto ai lavoratori licenziati senza giusta causa che potrà arrivare, quindi, a 36 mensilità.

Alla fine, come si vede, nulla è stato fatto per i riders e per i lavoratori nella c.d. Gig Economy ma sono stati presi dei provvedimenti generali che, oltre ad aumentare il costo del lavoro per determinati settori d’impresa, vanno a riproporre alcuni punti assai controversi come la questione relativa alle causali che, infatti, sono problematiche perché, soprattutto per le imprese più grandi, è praticamente impossibile dimostrare in maniera da fugare qualsiasi dubbio della reale presenza di una ragione oggettiva che giustifichi la necessità di assumere un lavoratore a tempo determinato.

Prima che le causali venissero abolite dal Jobs Act, poteva accadere che un lavoratore minacciasse una causa contro i propri datori di lavoro, sapendo che se il giudice non avesse ritenuto legittima la causale, l’azienda sarebbe stata costretta ad assumerlo a tempo indeterminato, terminando la cosa, solitamente, con un accordo tombale extragiudiziale e il pagamento di una somma al lavoratore

Questo – unito al maggior costo in caso di licenziamento ritenuto illegittimo e alla mancanza di incentivi alla trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, soprattutto perché il decreto doveva essere fatto a costo zero non essendoci fondi a copertura – potrebbe portare un provvedimento di contrasto al precariato a divenire, invece, un atto che spinga il risultato opposto. Così come strutturato il Dl rende, infatti, molto più conveniente l’adozione di contratti molto brevi (inferiori ai 12 mesi) e una rotazione maggiore dei lavoratori aumentando, così, la precarietà invece che ridurla.

Ovvio che il paradosso descritto sia a livello asintotico e relativo alle professionalità più basse e facilmente sostituibili, perché un’azienda difficilmente si priverebbe, se non in caso di assoluta necessità, di un collaboratore di valore su cui abbia investito anche tempo e denaro per la formazione. Ma quando si parla di leggi anche questi aspetti vanno considerati e qui, palesemente, c’è stata una sottovalutazione del problema.

Tornando sul fenomeno Gig Economy, varrebbe una riflessione l’esclusione del fenomeno dei riders, ad esempio, dalle previsioni del decreto. Il problema base sta nella bassissima marginalità che hanno le aziende come Foodora o Deliveroo. La regolamentazione delle piattaforme online della gig economy, infatti, potrebbe arrivare a minare la sopravvivenza stessa dei suoi modelli di maggior successo. Deliveroo, infatti, vanta un margine lordo di appena lo 0,7% sui ricavi prodotti, pur tenendo le retribuzioni dei suoi collaboratori a livello minimo. Le altre aziende, del resto, non possono vantare margini molto maggiori; un aumento del costo del lavoro andrebbe a intaccare la sostenibilità del business (sempre che questo sia davvero sostenibile, cosa su cui molti analisti pongono seri dubbi) e la possibilità di crescita dopo la fase di startup; in pratica queste aziende si reggono su quella che definiscono la “necessaria flessibilità” del lavoro, la possibilità, cioè, di assegnare trasporti e consegne a un vasto bacino di utenti-collaboratori, sostituibili tra loro in pochi secondi.

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