In anni non troppo lontani, anche se sembrano appartenere ad un’altra era geologica, la fiducia nella giustizia, e nella magistratura in particolare, è stata molto alta.
Era il tempo di “tangentopoli”, delle inchieste di “mani pulite” durate dal febbraio 1992 al 1997 in cui secondo le indagini statistiche pressoché univoche di quel periodo, la percentuale di italiani fiduciosi nella giustizia era del 60% anche se, nell’ultima fase, in sensibile calo.
Esaminando oggi la questione è alquanto evidente che l’affidamento all’epoca accordato alla giustizia fondasse più che sull’effettivo accertamento di responsabilità, sulla aspettativa del superamento, se non definitivo almeno in larga misura, dei difetti radicati della stessa come, solo per citarne alcuni, l’impunità largamente diffusa, l’incertezza nell’applicazione delle leggi e la lentezza dei processi civili e penali.
Il tradimento di quella aspettativa ha non poco inciso sul costante stillicidio di perdita di credibilità nella giustizia giunta ormai ad una fase talmente bassa che due italiani su tre non hanno fiducia nella stessa.
La questione è centrale poiché, coinvolge numerosi settori vitali, tra i quali l’economia, dove a causa del deficit di fiducia nel sistema giudiziario, si registra una perdita di investimenti in Italia quantificabile, secondo recenti sondaggi, in circa un miliardo di euro l’anno.
Certo non può negarsi che le responsabilità derivino da una forte carenza strutturale dell’amministrazione giudiziaria. I tribunali italiani sono afflitti da evidenti scoperture di organico, benché necessiterebbero di essere meglio dimensionati per fare fronte all’incessante carico di lavoro, così da evitare che i ritardi nella definizione dei processi continuino a determinare una doppia penalizzazione: per le persone direttamente interessate alla vicenda giudiziaria e per lo Stato, cioè a dire sempre noi, che sopporta un costo rilevante in termini di indennizzi. Si consideri che dalla sua entrata in vigore nel 2001, la Legge Pinto ha determinato un costo per i conti pubblici di circa un miliardo di euro per risarcire le violazione del termine di ragionevole durata del processo. Somme che potevano ben essere investite per la risoluzione, seppur in parte, di tali problematiche.
Eppure alcune questioni potrebbero essere risolte con relativa scioltezza. Per esempio potrebbe essere possibile alleggerire le sofferenze strutturali sottraendo al vaglio della giustizia moltiplici questioni, sia di ordine civile che penale, risolvibili in via amministrativa o anche in sede di autoregolamentazione.
Ma l’aspetto più rilevante è la necessità di recuperare la fiducia perduta e ciò è possibile, innanzitutto, prendendo atto dei dati reali rappresentativi di un sistema giudiziario evidentemente fragile e dall’andamento ondivago.
I rimedi non possono che partire dalla considerazione che la ricerca della verità deve essere costantemente perseguita e agevolata anche dalla semplificazione legislativa piuttosto che ostacolata da ingiustificati tecnicismi che, nel tempo, ci hanno indotto nella convinzione che a valere sia la “verità processuale” e poco conta che la stessa possa essere diversa da quella reale.