Quello di Rosario Livatino, primo giudice beatificato nella storia della Chiesa, è un cristianesimo non bigotto e convenzionale, che si nutre di studio, di riflessione, di intensa preghiera.
Monsignor Cataldo Naro mio predecessore ha scritto: “Rosario Livatino saputo vivere la sua fedeltà al Signore nell’esercizio del suo compito di giudice non arretrando neanche di fronte al rischio della morte per mano mafiosa. Per la Chiesa Siciliana è anche un richiamo a confrontarsi con il fenomeno mafioso proprio sul terreno dell’esperienza credente dei suoi membri. C’è una incompatibilità ineliminabile tra l’esperienza credente e l’appartenenza alla mafia. Il martirio di Livatino lo dimostra con chiarezza. Per i cristiani è una lezione che non può essere saltata” (Cataldo Naro, La speranza è paziente, interventi e interviste(2003-2006), Caltanissetta-Roma 2007, 354).
Mentre Rosario Livatino ricevette la prima comunione da ragazzo a 12 anni, la cresima la ricevette da adulto a 36 anni dopo essersi adeguatamente preparato ed aver superato una profonda crisi interiore, una notte oscura come quella dei grandi mistici, che si abbatté sullo spirito di Rosario Livatino nel 1984.
Egli si sente incapace di decifrare i disegni di Dio e cerca conforto nella solitudine. Scrive Livatino il 24 marzo: “E’ un brutto periodo per il morale. E’ prossimo alla disperazione e quindi al peccato”. Il 3 giugno scrive: “In mattinata a Messa alla Madonna della Rocca coi miei. Il mio spirito è nero. E il futuro non vedo come possa rischiararlo”. “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni”, scrive il 19 giugno 1984.”Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?”, scrive il 31 dicembre 1984.
Si tratta di un anno di crisi esistenziale e spirituale. E tuttavia la sua fede lo porta ad affidarsi alla misericordia di Dio. Nelle agende dal 1984 al 1986 ci sono accenni drammatici a una crisi di coscienza, dovuta – pare – a minacce e condizionamenti: Fino a una soluzione di fede e di accettazione della prospettiva del martirio: “Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori” (27 maggio 1986).
Rosario Livatino ritiene che il rendere giustizia sia come un atto di preghiera: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione. Nella consapevolezza che per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”.