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Giovanni XXIII, il Papa “di transizione” che ha rinnovato la Chiesa

Un po’ tutti, fra i cattolici, sulle prime non lo avevano capito, avevano pensato che il Conclave avesse scelto un “Papa di transizione”. Eletto a 77 anni, Angelo Giuseppe Roncalli sembrava destinato a preparare la strada a un successore più giovane, che avrebbe avuto più tempo a disposizione per far uscire la Chiesa dall’immobilismo in cui si era bloccata, a tutti i livelli, nell’ultimo periodo del pontificato pacelliano. Al contrario, il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora, aveva intuito immediatamente la carica di profezia e di coraggio che aveva dentro il nuovo Papa. Al punto da applicargli le parole del quarto Vangelo: “C’è un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni”.

Perciò, non fu certo un caso che, pur tra equivoci e polemiche, fossero stati per primi i cristiani delle altre Chiese, ma anche laici, e perfino agnostici, a reagire positivamente al clamoroso annuncio fatto da Giovanni XXIII il 25 gennaio del 1959. Non erano trascorsi neppure tre mesi dall’elezione. Quel giorno, nel cenobio benedettino accanto a San Paolo fuori le Mura, papa Roncalli, “tremando un poco di commozione”, aveva comunicato ai cardinali presenti di aver deciso di convocare un Concilio ecumenico, il 21°. E, mentre pronunciava quelle parole, i cardinali si guardavano sbigottiti, sconcertati, non credendo a quanto sentivano.

“Ci fu – aveva raccontato il Papa, prendendoli deliziosamente in giro – un impressionante devoto silenzio”. Era la Chiesa curiale, con forti ramificazioni dappertutto, e che non voleva cambiare, gelosa custode com’era del regime di cristianità. Poi, c’era una Chiesa ch’era stata colta di sorpresa, dando ormai per scontato che la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia avesse di fatto reso “superflua” l’istituzione conciliare. E ancora, una Chiesa che avvertiva il bisogno di rinnovamento, ma non era pronta, preparata. Infine, una Chiesa élitaria, formata da movimenti d’avanguardia, quello biblico, quello liturgico, teologico, ecumenico: minoranze, sì, ma portatrici di progetti riformisti molto convincenti.

Giovanni XXIII aveva compreso che la Chiesa doveva uscire dall’isolamento. Scrollarsi di dosso quell’eccesso di uniformità che ormai da troppo tempo – anche se in reazione alle minacce esterne, dal razionalismo all’ateismo, e alle crisi interne, con il modernismo – ne aveva enormemente rallentato l’azione pastorale, gli slanci missionari. Non solo, ma la Chiesa doveva assolutamente riprendere il dialogo con l’umanità, in un momento storico di grandi pericoli per la pace e di grandi cambiamenti politici, sociali e culturali. Il mondo diviso in due blocchi, e presto sarebbe stato costruito il Muro di Berlino. Lo strapotere del Nord ricco e la rabbia crescente di un Sud ogni giorno più povero. L’emancipazione della classe lavoratrice. Molti Paesi che si stavano liberando dal colonialismo. Il boom tecnologico. Le nuove generazioni in fibrillazione.

“Non si attende dalla Chiesa – si chiedeva Roncalli – non solo un nuovo monito ma anche la luce di un grande esempio?”. Cominciò il Concilio Vaticano II, l’11 ottobre del 1962, e fu un lungo susseguirsi di novità, di emozioni. 2.500 vescovi, da tutto il mondo, a testimoniare l’universalità della Chiesa cattolica. Il magistrale discorso di Giovanni XXIII, con l’attacco ai “profeti di sventura”, e il richiamo alla “medicina della misericordia” più che alle condanne, più che alle scomuniche. Poi, la sera, l’inno alla luna, il vecchio Papa che dopo secoli rimetteva in bocca alla Chiesa il linguaggio della gente, della vita di tutti i giorni.

Gianfranco Svidercoschi: