Secondo le statistiche Eurostat aggiornate al 2021, un giovane italiano su 4, tra i 15 e i 29 anni, è a rischio povertà. Sempre secondo le statistiche europee, l’Italia è al quinto posto nella classifica dei Paesi in cui la vita per i giovani è molto dura. Tali dati non possono e non devono lasciarci indifferenti. L’indicatore sulla condizione di grave deprivazione materiale e sociale è allarmante (5,6%), una condizione in cui diventa effettivamente impossibile comprare tutti i beni di cui si avrebbe bisogno per mantenere un tenore di vita accettabile. Non si riesce quindi ad esempio a permettersi una connessione internet, a comprare nuovi vestiti e scarpe per sostituire quelli usurati, a gestire le minime spese di vita personale e sociale. Va da sé che i nostri ragazzi italiani siano sempre più depressi, mancanti di quella gioia di vivere che a vent’anni dovrebbe essere una costante. E invece nei giovani a rischio povertà aleggiano insicurezza, depressione, paura del futuro, stati d’animo presenti ormai anche nei trentenni. La società in cui viviamo è sempre più competitiva e questo aspetto genera disagio in chi per carattere competitivo non è o in chi non può permettersi di esserlo. S’aggiungono l’incertezza e l’insicurezza. È la prima generazione che dopo qualche secolo non ha l’aspettativa di avere un tenore di vita migliore dei genitori. E, si sa, da poveri diventare ricchi è facile. Ma non il contrario.
Il Covid ha lasciato in tanti ragazzi una ferita: l’insicurezza di quello che può accadere. La famiglia e la scuola, inoltre, non costituiscono più quei punti fermi ai quali le generazioni precedenti hanno avuto modo di ancorarsi. I social, tra l’altro, sono diventati luoghi di rifugio e di negazione della relazione umana de visu, con non indifferenti e possibili problemi al sistema nervoso centrale per via dell’abuso della dimensione virtuale.
Essere a rischio povertà o, ancora peggio, poveri in una realtà del genere significa appartenere al popolo invisibile della povertà, all’insieme di coloro che vengono visti senza essere osservati, che sono esistenti ma non veramente visualizzati. Il primo aprile i dati di Eurostat hanno mostrato come l’Italia sia sprofondata in ultima posizione per quanto concerne il tasso di occupazione, ossia la quota di persone che lavorano sul totale della popolazione che ha l’età per farlo. Appena il 60,2%, alle spalle anche della Grecia. È tanto triste pensare a questa realtà. Bisogna, però, guardare ad essa senza farsi “risucchiare” dalla depressione sociale che la contorna. Dobbiamo avere il coraggio di rilanciare e andare per strada, ognuno a suo modo, ognuno nel suo campo. Se i sacerdoti possono potenziare la loro evangelizzazione per strada, noi psicologi abbiamo il dovere morale di aprire le porte a coloro ha bisogno andando loro incontro, sempre in linea con il nostro codice deontologico professionale. Molti di coloro che stanno leggendo queste righe possono, a mio avviso, provare a fare qualcosa nel loro piccolo. Certamente lo Stato può contribuire a porre le condizioni di un futuro percorribile e non legato a possibili e lontane chimere frustranti e irraggiungibili. In tal senso, giovani che guadagnano poco non sono in grado di costituire una famiglia e avere figli. Siamo nell’epoca delle costrizioni economiche a cui, naturalmente, si sovrappongono decisioni politiche che in Italia dovranno essere più che mai oculate e focalizzate sul soddisfacimento dei bisogni di chi è maggiormente in difficoltà.
Il rischio di povertà è spesso figlio di un mercato del lavoro sclerotizzato, di merito e concorrenza narrati come il peggiore dei mali possibili. Sono promessa di povertà una scuola e un’università che non funzionano, in cui si continua ossessivamente a parlare più dei docenti, di nuove assunzioni, di precari da regolarizzare e quasi mai dei discenti e della loro formazione alla vita e al lavoro. Dovremmo imparare a premiare i migliori studenti con importanti occasioni di pre-lavoro, con apprendistato serio e competente. Spesso capita, invece, che favoriamo la politica del mandare avanti giovani a priori, magari poco preparati al mondo del lavoro, poco abituati al senso critico. Un vero peccato. È a dir poco stucchevole invocare stipendi più alti per i giovani senza voler cedere in riferimento a neanche uno dei privilegi riconosciuti per diritto anagrafico agli stessi che parlano solo di precari. È un ossimoro pensato e voluto dalla politicanza. È una contraddizione intellettuale singolare: si tessono le lodi delle opportunità concesse all’estero ai giovani (la famosa “fuga dei cervelli”), ma chi suggerisce di importare alcune delle caratteristiche di quei mercati del lavoro viene considerato folle. La triste verità è che l’Italia purtroppo sembra sempre meno un Paese per giovani. Siamo inseriti in un sistema che ha un ascensore sociale non più guasto ma rotto. Secondo l’OCSE, la povertà in Italia si tramanda per 5 generazioni. Il muro, per chi ha problemi economici, diviene una diga insormontabile ormai. È l’epoca dei neet. L’Italia ne contiene il maggior numero. Si tratta di giovani trai 18 e i 29 anni (in Italia fino ai 34 anni) che non lavorano, non studiano e non sono in formazione professionale, secondo alcuni dati dell’Istat fermi al 2021.
Interpellando direttamente i giovani che quei muri devono ancora affrontare, ovvero i giovani delle scuole superiori, si vede come la fuga all’estero venga vista sempre di più come una soluzione alla palude presente nel Paese. Guardando il dato della mobilità territoriale, dei 5.500 ragazzi tra i 14 e i 19 anni interpellati tramite un formulario per l’indagine 2022 della Fondazione Visentini, alla domanda “Nel 2030 dove ti vedi a vivere?”, più di 1 su 4 ha risposto fuori dall’Italia. La fascia di età 18-29 incontra, quindi, resistenze all’adultizzazione, ovvero difficoltà nel processo di separazione-individuazione rispetto alle figure genitoriali o/e ai caregiver. La scarsità di sbocco professionale aumenta vissuti di frustrazione e sfiducia verso la realtà e contribuisce ad un maggior ritiro sociale. Il tratto di sfiducia è ricorrente e il Sé fragile ne è una fisiologica conseguenza. In alcuni, in particolare, l’impatto con la realtà diviene traumatico comportando un’angoscia di frammentazione. Sappiamo bene che l’angoscia è determinata dal “non sapere”, da quell’indefinitezza che spiazza e “uccide” l’animo di chi vorrebbe credere in un futuro e si sente spesso nel “non ancora” cronico. È importante, in tale prospettiva, servirsi di un valido supporto psicoterapeutico volto a favorire l’individuazione di un opportuno esame di realtà funzionale al fronteggiamento efficace della situazione problematica.
Quella analizzata sin qui è una condizione che non si risolve solo con corsi di formazione ma soprattutto aiutando i giovani a non perdere autostima e fiducia nei propri mezzi. E per fare questo occorrono reti educative, comunità, sinergie tra le tante realtà che operano nel mondo dei giovani: famiglia, istituzioni, scuola, Terzo Settore. Bellissima, in tale ottica, la famosa frase di Antoine de Saint-Exupéry “Se vuoi costruire una barca non devi mettere gli uomini a tagliare la legna ma insegnargli il desiderio per il mare vasto e infinito”. È esattamente così. Ogni ragazzo in odore di povertà, se è prossimo alla possibilità di smettere di sognare, è una sconfitta e una amarezza del nostro Paese che ad un tempo perde una persona e una ricchezza. Non dobbiamo permetterlo. In ogni ragazzo che rischia la povertà c’è un pezzetto di povertà che ci riguarda e ci tocca. Siamo esseri umani presenti nella stessa barca. Non perdiamo tempo a tagliare legna. Ritroviamo il desiderio per il mare vasto e infinito. Facendolo forse anche qualche giovane in difficoltà guarderà a questo esempio e troverà una motivazione nuova per nuotare e remare. Allora sì che il mare apparterrà anche a lui. E un pezzettino in più a tutti noi.