Per un attimo ho pensato di scrivere un articolo che citasse l’aumento esorbitante di iper-connessione da parte dei giovani. Per un attimo mi sono immerso in rete per cercare dati che potessero suffragare le tesi qui esposte. Per un attimo stavo per finire nel web senza limiti e senza tempo. Mi son fermato pensando che una dimensione fondamentale è proprio questa: il tempo. Mi sono allora preso, io, il tempo di stare nell’umano più che nel virtuale e improvvisamente alcuni giovani nella mia mente sono diventati centinaia di giovani, milioni di giovani, accomunati dai device. Ognuno con il suo smartphone. Ognuno di questi giovani alle prese con una notizia da carpire tenendo il telefono in mano e lo sguardo a metà tra loro, il loro interlocutore e lo schermo. Se mi immedesimo in molti giovani di oggi, mi sento di dire che sono esseri a metà in questa fase.
Sono esseri che non hanno più cura del tempo tra loro perché scelgono di vivere quello per loro, per il soddisfacimento del loro piacere che dona molta più soddisfazione dell’omeostasi, ovvero di quell’equilibrio dinamico che rende, invece, la vita bella nella profondità. Spesso non ci piace la profondità. Preferiamo perderci nei meandri della superficie, così immediata, così “accogliente” nella sua istantaneità che ci fa vivere il tempo veloce senza che esso possa chiederci di sederci, di riflettere, di pensare. Ah…, roba da filosofi, iper-riflessivi, frustrati, esistenzialisti dell’ultimo grido… “La vita è ora!” urlano in molti. E non ci sarebbe nulla da dire se a questa frase seguisse un movimento verso l’incontro con l’altro. Invece, ci si ferma su un bus e si vedono capi chini rivolti verso schermi. E la luce del sole illumina anche nelle piazze più nuche che volti. Ripiegati alla ricerca di una falsa base sicura rappresentata da uno schermo che ha aperto le porte del mondo, che ha bypassato oceani, avvicinato continenti ma, nel contempo, ci ha resi più insensibili allo sguardo. Guardiamo meno l’altro e, quando lo facciamo, difficilmente incontriamo davvero gli occhi nel profondo. Spesso il nostro sguardo oltrepassa l’altro, confuso com’è da quel che l’attimo dopo gli spetta. Che peccato se pensiamo che le relazioni autentiche sono quelle che passano attraverso l’incontro pieno degli occhi.
In questa dimensione che accomuna ormai tutti, dai più piccoli ai più grandi, gli adolescenti di questa epoca si son ritrovati a pensare di avere ragione nello stare rinchiusi nel loro mondo dal momento che un fenomeno chiamato “covid-19” li ha costretti a stare in casa. Non è stato facile, nessuno può negarlo. Nessuno, però, può negare che, ad un certo punto, era come se non fossero più esistiti e non esistessero, per molti giovani (non tutti fortunatamente), giochi di società, strumenti musicali, libri, partite a carte, dialoghi, confronti… Mentre scrivo già sembro a me stesso “figlio” di una retorica che si perpetua: “i giovani di oggi non sono più quelli di una volta…”. Penso esattamente il contrario. Ho avuto la fortuna di incontrare centinaia di giovani a scuola. Ho la fortuna di incontrarne tanti all’università, nel mio studio e, da poco, nel mio nuovo lavoro all’interno di un consultorio familiare in un’ASL. Più parlo con i giovani, più scorgo menti vive, vogliose di vivere la vita in altro modo. Il punto è che non sanno come potrebbero viverla diversamente. Ma sanno che stanno vivendo la vita di qualcun altro. Non la loro. Sono tanti. Siete tanti.
Non è dinanzi a quello schermo che troverete il vostro senso. Non è lì che potrete sentire la bellezza che si respira dinanzi ad un’opera d’arte o mentre si abbraccia un amico come se non ci fosse un domani. Avete bisogno dell’incontro con l’altro. Avete bisogno di incontrare la vita piena, quella che nessuno smartphone può regalare. L’altro probabilmente vi spaventa ma fa molto più male lo schermo che avete dinanzi. Nello schermo vi schermate. Nell’altro potete amarvi ed essere amati. In questa differenza emerge l’importanza che ha la vita sociale, la vita insieme all’altro, di persona, in presenza, de visu. È molto più facile nascondersi dietro uno schermo che rivelarsi davanti ad un proprio pari. Non abbiate paura di essere. È nell’essere che potrete costruire il vostro modus vivendi.
Uno studio condotto dalla London School of Economics and Political Science, pubblicato su Science Direct, ha indagato i motivi per cui molti di noi controllano in modo quasi ossessivo il proprio smartphone. Analizzando il comportamento di 37 giovani di diverse nazionalità, i ricercatori hanno potuto constatare che le interazioni con il nostro cellulare avvengono principalmente non in risposta a chiamate, messaggi o notifiche, ma senza motivo. È un gesto ormai automatico, come accendersi una sigaretta per un fumatore. Circa una volta su quattro sblocchiamo lo schermo dello smartphone per leggere o inviare messaggi su whatsapp. Una volta su tre prendiamo in mano il telefono per guardare Instagram e Facebook, e solo il 6% delle volte lo facciamo per controllare le e-mail, nonostante siano le notifiche più importanti. Infine, solo l’1% delle volte rispondiamo o effettuiamo una chiamata, a conferma del fatto che la funzione per cui il telefono è nato è ormai passata in secondo piano. Per molti, controllare il proprio smartphone è un bisogno di gran lunga maggiore dell’utilizzarlo per comunicare.
In sintesi, l’uso incontrollato del cellulare è un problema sempre più serio, in particolare per le nuove generazioni, abituate a maneggiare apparecchi tecnologici fin da piccolissimi. La tecnologia, quindi, nata anche per favorire le relazioni sociali, rischia di essere tra i fattori di rischio maggiore che può danneggiarle. Come sostiene Galimberti, non c’è dubbio che, da un punto di vista psicologico, il cellulare sia un regolatore e un moderatore dell’angoscia di separazione, determinata non solo dalla lontananza fisica, ma soprattutto da quella più intollerabile di natura sentimentale che nasce dai vissuti di mancanza e di perdita del contatto con l’altro. Molto spesso è proprio così. Molti, i giovani in primis, telefonano, chattano, non perché abbiano davvero qualcosa da dire, ma per soddisfare un bisogno di sicurezza incrinato, da ricostruire con contatti continui, per non dire compulsivi. Non tollerano più la distanza. Non sopportano l’assenza. Vivono in uno stato di dipendenza parziale o totale che non conosce, quindi, la parola “autonomia”. La dipendenza dal cellulare ha tolto la possibilità di stare con sé stessi. I giovani non dispongono più del loro tempo per pensare le loro risposte perché devono darle immediatamente. Non hanno più la possibilità di interiorizzare i loro amori perché, se non chiamano, è già subito abbandono. Non sanno più stare soli con sé stessi per più di un’ora e, in tal modo, la loro interiorità si impoverisce.
Per i giovani più dipendenti dal cellulare, esso è la spina che li tiene legati al mondo, e così perdono il mondo circostante, perché conta cosa c’è al di là dello schermo, non cosa alberga nell’interno del proprio animo. Così si perdono il loro mondo interiore. E il rischio più alto è la solitudine. E cos’è la solitudine, oggi, se non un cellulare che ha smesso di squillare ma continua a “guardarci”? Forse dovremmo ritornare a guardarci noi, negli occhi. Non c’è schermo più bello di quello di una retina.
Non c’è smartphone migliore delle pupille di chi abbiamo dinanzi. Certo, dobbiamo fare uno sforzo, giovani e meno giovani: posare i cellulari, rimettere in moto la parola, dandoci il tempo necessario.
Già, proprio il tempo, la dimensione fondamentale… Quando riusciremo a protendere le mani verso altre mani (e non verso un apparecchio telefonico), avremo ritrovato adrenalina pura. Avremo rimesso in circolo i processi relazionali naturali. Si sarà riattivato ancor più naturalmente il battito cardiaco. Sarà l’attimo in cui il cuore non avrà la forma di un device ma scandirà il battito splendido di un tempo pieno e ritrovato.