Si celebra oggi la XX Giornata Nazionale del Sollievo. “Se Dio esiste non vi sarebbe nessun male nel mondo. Ma nel mondo si trova il male. Quindi Dio non esiste”. Così affermava San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae a conferma dell’eterno mistero del dolore che pone al sofferente la domanda: perché, perché proprio a me? E l’interrogarsi prosegue sul senso della sofferenza e su quale ne sia il significato.
Nascita, vita, dolore, sofferenza, malattia, vecchiaia e morte fanno parte della condizione umana. La persona umana, sente di essere fatta per la vita, e la malattia viene avvertita come un limite ed è subita come una negatività fino ad una sorta di schiavitù, e allora la liberazione da essa diviene una vera e propria necessità.
Certamente la sofferenza pone l’uomo in crisi, ed è per questo che cerca di liberarsene in ogni modo, ma può rappresentare anche un’occasione salvifica particolare in cui si è chiamati a verificare se stessi, a mostrare il vero volto e a indicare il proprio valore.
Come affermato da Papa Francesco: “La sofferenza non è un valore in se stesso, ma una realtà che Gesù ci insegna a vivere con l’atteggiamento giusto” e aggiunge “ci sono, infatti modi giusti e modi sbagliati di vivere il dolore e la sofferenza”.
A tale proposito già Pio XII nel 1956 al IX congresso della Società di Anestesiologia nel suo discorso ai medici affermava: “L’accettazione del dolore fisico non è che un modo, tra molti altri, di significare ciò che è l’essenziale cioè: la volontà di amare Dio e di servirlo in tutte le sue cose. Nella perfezione di questa disposizione della volontà consiste anzitutto il valore della vita cristiana e il suo eroismo”.
E’ certamente per merito dei grandi progressi della medicina che oggi si possono salvare vite un tempo considerate perdute, e nel contempo assicurare anche una migliore qualità della vita, oltreché naturalmente un aumento della sopravvivenza. Ed è in questa condizione che si è sviluppata nella società una nuova cultura della qualità della vita, per cui un suo ridimensionamento ne rende insopportabile l’esistenza.
In questo contesto, si inserisce la malattia che non deve essere affrontata dal Medico in maniera meramente tecnologica perchè la tecnica fin quando rimane al servizio del paziente, assume valore etico, ma diviene al contrario, puro tecnicismo, quando si limita a servire solamente la scienza.
Se un Medico infatti, non si accontenta di essere semplicemente un operaio della salute, allora è inevitabile che nel suo incontro con l’altro, non si limiterà soltanto a chiedersi la ragione della sua malattia, ma si domanderà anche il perché del dolore.
La società contemporanea accetta ormai, come fatto ineluttabile, la caduta del rispetto per la vita umana, l’emarginazione dell’anziano, la perdita del senso della famiglia. L’uomo è triste e quindi si muove, a volte senza senso, troppo alla ricerca del potere, del denaro e del successo.
Gli esseri umani oggi hanno una paura terribile del vuoto, di invecchiare, di morire, di essere esclusi, di essere messi da parte. I padri non vogliono essere chiamati papà, i nonni non vogliono essere chiamati nonni. I capelli bianchi, le rughe, vengono guardati come una tragedia da evitare.
Si è passati da una medicina dei bisogni, che mira alla cura della malattia, alla medicina dei desideri rivolta alla cura dell’aspetto fisico, alla programmazione in provetta del figlio perfetto, alla chiusura alla vita secondo logiche che poco spazio lasciano al disabile grave, all’anziano non autosufficiente, al malato terminale.
Nella persona morente, c’è anche il bisogno della compassione, “Cum Passio” che etimologicamente significa “soffrire insieme”. Accanto al sofferente, possiamo imparare ad ascoltare come sapevano fare i nostri vecchi, a comprendere, a condividere la sofferenza dell’altro, a dare sollievo e speranza, a consolare.
Il modo di consolare, si deve nutrire di dolcezza, non di asprezza; deve saper calmare il dolore, addolcire il bruciore, più che provocare turbamento ed angoscia.
L’ars medica, in questo, ci può dare sicuro insegnamento, così come sa usare per le piaghe urenti medicamenti lenitivi atti ad alleviare il dolore. Prendersi cura è cosa diversa dal semplice curare, significa certamente alleviare il dolore fisico ma anche quello morale che inevitabilmente si accompagna al calvario della malattia.
Quanto occorre allora stare attenti anche nel colloquio col malato, a non parlare con faciloneria o con superficialità! Anche il silenzio, alcune volte, può essere una medicina, com’anche l’uso di un linguaggio appropriato che, evitando parole forti, non generi disperazione nel sofferente.
La figura del Medico, fondamentale, in tale contesto deve sapere aiutare a morire con dignità, non abbandonando il paziente, ma tenendolo per mano in questa sua ultima esperienza umana, la più ardua della propria esistenza, fedele all’insegnamento ippocratico: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò“.