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Il caso Evergrande: la punta dell’iceberg della debolezza del modello di crescita cinese

Quando si pensa ai grandi crack economici il pensiero va sempre alla crisi del 1929, ancora prima di quella del 2008 seppur, a livello di numeri, sia stata ben peggiore anche se meno iconica nell’immaginario comune. In pochi, però, ricordano la depressione del 1921, scoppiata a seguito della Grande Guerra e dell’epidemia di Spagnola che fece crollare il PIL americano di del 17% causando l’aumento della disoccupazione al 12% e un tasso di deflazione del 10% contagiando, anche se in termini minori, anche l’Europa.

Oggi, esattamente 100 anni dopo, si potrebbe assistere a una replica di questo dall’altra parte del mondo. Invero non c’è stata alcuna guerra mondiale (per fortuna, va sottolineato) ma si sta, solo ora, uscendo da una pandemia che ha colpito il globo intero e le notizie che, ancora una volta, giungono dalla Cina non fanno presagire nulla di buono in campo economico.

Sicuramente tutti abbiamo sentito parlare del problema Evergrande, la grande società immobiliare cinese che sta correndo verso il fallimento per la mole di debiti accumulati negli anni, come rileva Fitch che ha tagliato il rating su di essa a C, un notch sopra il default, infatti. Di questa società si è già parlato ampiamente in queste settimane e non è il caso di ripetere quello che è facilmente recuperabile con una semplice ricerca su Google, però molto più interessante è iniziare a valutare quale impatto di scenario possa avere questa crisi. Come il venerdì nero del 1929, anche in questo caso tutto nasce da una bolla immobiliare che si è gonfiata nel corso degli anni.

Per fare un esempio, come rileva Investing.com, i prezzi medi delle case a Shenzhen scontano un multiplo di 43 volte il reddito medio e Pechino arriva “solo” a 41 volte, se si guardassero due altri mercati “impossibili” come Londra o New York, anche essi in bolla, questi scontano multipli rispettivamente a 15 e 10 sul reddito medio.

È evidente che la situazione non sia sostenibile e che, come più volte descritto sui media, il numero degli invenduti cresca giorno per giorno andando ad appesantire i bilanci delle aziende che, nel frattempo, devono rimborsare i debiti magari accesi a stato avanzamento lavori (SAL), cosa che spingeva a costruire ancora per poter ottenere nuova liquidità.

Il caso Evergrande, quindi, è la punta dell’iceberg della debolezza del modello di crescita cinese, di cui si era già ampiamente parlato in passato, che vede il settore immobiliare pesare il 29% circa sul totale annuo del Prodotto Interno Lordo ma che, poi, si basa su una mole di debiti privati, pari a circa il 250% del PIL, che, finora, erano giudicati solvibili valutando la crescita continua dell’economia del Dragone; se un colosso come Evergrande fallisse portando con sé una stretta sul credito, causando l’esplosione della bolla immobiliare, spingerebbe una gran parte di questo debito nel calderone delle NPE minando le basi stesse della crescita.

Già solo il crack di un colosso come questo avrebbe serie conseguenze a livello globale per la presenza dei bond emessi in diversi fondi comuni di investimento in seno ai più importanti gestori di capitali ma se l’eventuale default innescasse una “reazione a catena” sull’intero comparto immobiliare cinese, dove esistono intere città fantasma di immobili invenduti questo potrebbe rappresentare un vero e proprio “butterfly effect” che si ripercuoterebbe sul mondo intero, forse ancor più pesantemente della crisi dei mutui sub prime che si scatenò in USA alla fine del 2006.

Quello che, però, sembra rasserenare il clima è il fatto che il governo cinese non voglia subire una Lehmann Brothers locale, da un lato Evergrande non è così interconnessa con i mercati mondiali come la caduta grande banca americana, nonostante le importanti partecipazioni in istituti di credito locali, e dall’altro sembra che si voglia giungere a una crisi pilotata perché possa avere meno conseguenze possibili, come indicano diversi analisti, ma sicuramente, date le dimensioni della società, questa sarà un’impresa non certo agevole.

Forse, come già si era detto in passato, la “demolizione controllata” di Evergrande e la rimodulazione del sistema economico che potrebbe discenderne in maniera “spintanea” da parte del governo potrebbe esse l’inizio di quel consolidamento di mercato che porterà la Cina a normalizzarsi, spostando il focus dalla finanza (quindi dal modello di crescita a debito) a un’economia più orientata verso i consumi, creando quel mercato interno che sta alla base di un modello di crescita sostenibile nel tempo, sicuramente meno tumultuosa rispetto a quanto i cinesi ci abbiano abituato negli scorsi anni ma strutturalmente più solido.

È evidente che, in questo secondo caso, si assisterebbe a un rallentamento dell’economia mondiale, non legato a elementi singoli come la pandemia di Covid-19 ma a una stabilizzazione della produzione di ricchezza e degli investimenti che potrebbe portare anche a vantaggi di non poco conto per tutti, come, ad esempio, una normalizzazione del costo delle materie prime.

È ancora presto per capire, esattamente, a cosa porterà questo primo, potenziale, grande crack in oriente ma non è certo una questione da sottovalutare perché le conseguenze, probabilmente, si propagheranno in ogni angolo del pianeta.

Come detto in incipit, quindi, 100 anni dopo la crisi del 1921 il mondo si trova a dover affrontare un altro periodo similare, all’uscita di un biennio pandemico dove, però, il fiammifero della crisi non è stato acceso nel nuovo mondo ma in estremo oriente, la domanda che sorge in questo momento è, allora, “il sistema economico mondiale, sempre più interconnesso, e i governi riusciranno a governare la potenziale criticità, magari cogliendo la palla al balzo per spingere una crescita più armonica o sostenibile o la storia non ha insegnato nulla?”. La risposta non tarderà ad arrivare.

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