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L’errore di mitizzare il passato. L’origine della perdita di senso

Un errore frequente è quello di elogiare acriticamente il passato senza inquadrarlo storicamente. Per esempio se tra Ottocento e Novecento la visione agnostica del mondo progrediva ogni giorno, era dovuto anche al fatto che il cristianesimo, proprio per la sua debolezza, aveva lasciato uno spazio vuoto. “Per la prima volta nella storia – scriveva J.-M. Domenach – alcune società vivono al di fuori di qualsiasi apparente riferimento al sacro. I bambini che vi vengono allevati non hanno più occasione di incontrare il sacro”. O, nel migliore dei casi, imparavano a memoria il catechismo di san Pio X, “Chi è Dio?”, con il vantaggio di portarselo dietro per tutta la vita; ma anche con l’immagine di un Dio onnipotente, padrone di tutto, nascosto nei cieli.

Da lì, da quelle lezioni di dottrina, erano uscite intere generazioni di cristiani che, a motivo dell’apprendimento soltanto mnemonico, non avrebbero maturato le verità della fede, gli insegnamenti morali. E siccome per secoli la Chiesa si era preoccupata solo dei fanciulli, gli adulti erano stati lasciati a sé stessi. E avevano finito per ridurre la vita cristiana ai momenti simbolici essenziali, o per dare importanza solo a quelli che erano semplici comportamenti della quotidianità. Se ancora pregavano, lo facevano in maniera individualistica, utilitaristica, ricorrendo al Dio “tappabuchi” per ogni bisogno. Mai una preghiera come lode, come ringraziamento. Oppure, qualcuno identificava la preghiera con l’impegno sociale. “Lavorare è pregare”, diceva; e l’impegno finiva per diventare un’alternativa alla preghiera. Ci si andava a confessare, ed era frequente incontrare un prete, il quale, anziché cercare di capire ciò che il penitente avesse dentro, lo assaliva con severità, quasi si fosse in un tribunale. E, con i giovani, quelle solite domande morbosamente ingiuntive: “Quante volte figliolo?”.

Proprio il sacramento della penitenza fu quello a risentire maggiormente della crisi. Con la morale cristiana ridotta a un’etica disincarnata e manualistica, c’era stata una crescente perdita del senso del peccato. E, con lo svuotamento morale di molti cristiani, si attenuò conseguentemente lo spirito di fede. Anche perché la fede veniva concepita e vissuta in termini molto formali, esteriori: come un obbligo, un dovere particolare, addirittura un’ovvietà. E dove, perciò, c’era poco posto per la grazia divina, per la carità.

Ricordo, primi anni Cinquanta, la Messa dei grandi la domenica. Gli uomini tutti in scuro, impettiti, mai in ginocchio, come a una parata. Le donne alternavano gli Amen, prontissime a rispondere, con le Avemmarie e il Padre nostro. In prima fila, le vecchiette sgranavano il Rosario, disinteressandosi di tutto il resto. Dal fondo arrivava il chiacchiericcio delle coppie più giovani. E intanto il prete, spalle voltate, continuava a celebrare il suo rito nella sua lingua. Mentre noi ragazzini, già stati a Messa, aspettavamo i genitori giocando in oratorio. Attenti comunque a non incrociare il viceparroco, uno terribile. La settimana prima, all’improvviso, ci aveva portati in chiesa e, sui gradini dell’altare, fatto giurare che avremmo conservato la castità fino al matrimonio. Il giorno dopo, gli devastammo la cripta; però lui ancora non sapeva, solo sospettava. Oggi, certo, fa sorridere. Ma allora, in molte parrocchie della periferia, come la mia, era l’ordinaria religiosità.

Gianfranco Svidercoschi: